Federico Nati è un astrofisico romano quarantaquattrenne. Oggi lavora all’università di Milano-Bicocca ma le sue ricerche lo hanno portato in capo al mondo. Non è un modo di dire: dall’Antartide all’Atacama, il deserto più alto del mondo, ha scrutato lo spazio da alcuni dei luoghi più estremi del pianeta. Dai quali è più facile osservare il cielo, ma anche guardarsi dentro.

NATI HA RACCONTATO questo percorso scientifico e personale dapprima su Internet, per immagini e frammenti narrativi. Ora ne ha tratto un libro di duecento pagine e parecchie fotografie: L’esperienza del cielo. Diario di un astrofisico, appena pubblicato per La nave di Teseo (pp. 288, euro 17,00).

La casa editrice fondata da Elisabetta Sgarbi prosegue meritoriamente un lavoro di divulgazione avviato con i libri di Samantha Cristoforetti e Roberto Battiston, l’astrofisico epurato dall’Agenzia Spaziale dal governo gialloverde. Ma nel genere della divulgazione scientifica, il «diario» di Nati rappresenta un’opera diversa e originale.

Non è il racconto di una grande impresa o l’autobiografia di uno scienziato-star. Piuttosto, sono le avventure straordinarie di un ricercatore qualunque, e siamo sicuri che Nati non si offenderà. È il resoconto spesso comico di esperimenti che a volte riescono e altre no, per cui conviene rivolgersi allo spirito – «proteggici, per la Madonna» – di Rita Levi-Montalcini.

È la riflessione di un giovane cresciuto a Montesacro disposto a trascorrere lunghi mesi in luoghi improbabili, lavorando a ricerche che, se tutto va bene, aggiungeranno un granello invisibile al castello della conoscenza scientifica, e se tutto va male bruciano tempo, soldi e carriere in pochi minuti. È il racconto della scienza, quella vera.

Il mestiere di scienziato è bellissimo e appassionante, non conosce orari e spesso finisce per sovrapporsi alla vita intera. Può capitare, in Antartide, di lavorare per settimane sul ghiaccio sotto il sole perenne, dove non capisci più se sia ora di addormentarsi o di svegliarsi, di accanirsi o di riflettere. Tutto per mandare per aria un telescopio attaccato a un pallone aerostatico chiamato «Blast» che significa «scoppio», tanto gli scienziati non sono scaramantici.

OPPURE, una mattina di sole, decidere istintivamente («come un deragliamento») di averne abbastanza dell’eterna precarietà italiana e trasferirsi in cima alle Ande a guidare l’Atacama Cosmology Telescope. Cioè, un osservatorio rotante da trenta tonnellate a cinquemila metri di altitudine, dove l’ossigeno è dimezzato e le strade sono piste di terra da non lasciare mai perché il governo ha minato il terreno per evitare che i narcos aggirino i check-point. E con un unico compagno di lavoro, José. Che non parla mai.

GIORNI E NOTTI a guardare il cielo o a sistemare gli strumenti che lo faranno al posto nostro. È tutto un gioco di specchi. I telescopi che si usano nei grandi osservatori non contengono lenti, ma parabole riflettenti. Permettono di rilevare i deboli segnali elettromagnetici provenienti dalle regioni più remote del cosmo dove si nasconde la materia oscura che c’è ma non si vede. O, nel caso del pallone antartico, per osservare le polveri minuscole dell’universo da cui forse, fra milioni di anni, nasceranno nuove stelle. Ma lo specchio riflette chi ha davanti. Nati per lavoro guarda lontanissimo, ma quando si sdraia sulla branda al polo sud o si arrampica nella cupola in Cile esplora anche i suoi dubbi. Ha senso cercare così il proprio destino? Cosa spinge fino in fondo uno scienziato, l’ambizione o i fantasmi? E non c’è un modo meno cervellotico di placarli?

L’esperienza del cielo è tante cose insieme: un saggio divulgativo, un racconto di avventura, un romanzo di formazione in cui tutto si tiene. Dove la spiegazione della misteriosa radiazione cosmica di fondo che pervade l’universo si alterna con le avventure picaresche di Matsuo, il ricercatore che forse arrotonda facendo il corriere della droga ma è il più bravo di tutti a far funzionare un telescopio. Un po’ Quark e un po’ Breaking Bad: tra un progetto scientifico e l’altro, Nati ha trovato il tempo per un esperimento narrativo e si è inventato un modo nuovo di raccontare la scienza.