Alla Camera (Commissione affari sociali) a pochi giorni dall’aula sul testamento biologico si sta consumando un importante scontro ideologico tra culture conservatrici e culture progressiste.

Si tratta della possibilità da parte del cittadino di esprimere in modo anticipato la propria volontà in merito ai trattamenti medico sanitari che intende o non intende accettare nel caso in cui, gravemente malato, non fosse nella condizione di decidere di se, con «libertà» «responsabilità» e «consapevolezza».

Negli anni 70 uno scontro analogo avveniva sugli stessi sostantivi e, tra etica e politica, videro la luce grandi leggi di emancipazione come quella sull’aborto. In entrambi le circostanze al centro dello scontro il principio di autodeterminazione, con la differenza che allora si riferiva in particolare alla donna che rifiutava l’ordine naturale della sola procreazione, oggi con il testamento biologico si riferisce al malato che rifiuta un governo clinico dettato esclusivamente dalla ineluttabilità dell’ordine naturale della malattia.

In entrambi i casi la stessa sfida politica e filosofica: nessuna autodeterminazione è possibile senza una emancipazione della morale dalla natura. Legge morale e legge naturale ormai in medicina sono cose distinte.
Con il testamento biologico nel terzo millennio l’obiettivo è di emanciparci non dalla malattia tout court ma da un certo modo di gestirla quindi dalle sue conseguenze dalle sue implicazioni e dai suoi oneri e di decidere come malati insieme al medico come curarla.

Negli anni 70 questa emancipazione prendeva la forma della maternità «libera» «responsabile» e «consapevole» (contraccezione, ivg, consultori) oggi con gli stessi sostantivi quella del testamento biologico cioè la ridiscussione di una vecchia idea di medicina paternalistica peraltro già ampiamente ridiscussa in tanti modi (empowerment, consenso informato, alleanza terapeutica, relazione di cura, volontarietà delle cure ecc).

Negli anni 70 una enciclica, l’Humanae vitae, sosteneva l’indissolubilità della legge naturale e della legge morale per cui il piacere sessuale non poteva essere separato dal fine primario della procreazione. Oggi l’enciclica più recente riguarda l’ecologia (Laudato si) e in più si è appena concluso un giubileo all’insegna della «misericordia sociale» con una morale tesa sempre più a dialogare in modo indulgente con il naturale.

Ebbene a giudicare dagli emendamenti presentati dai deputati cattolici sul testamento biologico, a quanto pare né il messaggio ecologico imperniato sul principio di responsabilità né la «misericordia et misera» (la lettera apostolica che ha chiuso il giubileo) valgono per l’uomo malato che nel terzo millennio si permette di rivendicare in perfetta coerenza con la Costituzione, e non solo, di codecidere con il medico il governo della propria malattia.

Per costoro l’uomo malato a quanto pare deve sottomettersi all’ordine naturale e allo stesso tempo morale della malattia di cui l’unico garante resta la «scienza e la coscienza» del medico. Vorrei che non sfuggisse l’assurdità filosofica di tale pretesa.

Mentre con il personalismo proprio la cultura cattolica ci ha insegnato il valore della persona, nello stesso tempo essa ci dice che il malato non può fare testamento biologico perché incosciente (senza coscienza) e perché insipiente (senza scienza).

Per cui sorprende e non poco la nuova carta degli operatori della sanità redatta di recente dal Vaticano e la conseguente presa di posizione dei medici cattolici. Senza alcuna misericordia costoro rivendicano il diritto/dovere di fare obiezione di coscienza nei confronti della volontà del malato.

Sorprende come essi alle prese con quella che in un libro ho definito «questione medica» non colgano nel testamento biologico una grande occasione di rilegittimazione sociale della professione cioè una occasione attraverso la quale è possibile ricostruire la fiducia perduta attraverso una nuova relazione tra medicina e società.

Il consenso informato, e la pianificazione delle cure la possibilità di redigere il testamento biologico con il proprio medico curante sono formidabili strumenti di rilegittimazione sociale.

Tralasciando i dettagli della discussione parlamentare, desidero segnalare il problema di coloro che si danno un gran da fare per la reintroduzione del principio di indisponibilità della vita parlando di eutanasia passiva, di suicidio assistito, quando si tratta di ben altro.

Il testamento biologico non è altro che una particolare idea di governo clinico partecipato basato su una idea di predicibilità a partire da una relazione consensuale di cura.

E’ vero come diceva Foucault che l’uomo non muore perché si ammala ma si ammala perché deve morire ma questo non autorizza nessuno a scambiare il testamento biologico come una forma surrettizia di eutanasia. Cioè a scambiare l’escatologia con la clinica.

Che la malattia sia una forma di finitudine non si discute ma che si debba vivere la condizione di malato per forza alle condizioni imposte dalla malattia e dalla clinica questo si che è discutibile.