Si resta spiazzati dalla scenografia sghemba, quando si entra nella sala del Fabbricone. Ci si chiede se su quel balcone in primo piano si svolgerà l’azione di Empire, spettacolo di punta a Contemporanea, che il regista svizzero Milo Rau ha presentato in prima nazionale, quasi a condensare il senso del titolo – «Vivere al tempo del crollo» – scelto dal direttore artistico Edoardo Donatini per l’edizione 2017 del festival pratese. Ma subito i quattro attori ruotano la grande quinta double face e un interno intimo e modesto si rivela: cucina, tavolo e sedie, un letto. Due siriani, di cui uno ateo (Rami Khalaf) e l’altro curdo e «miscredente» con tanto di medaglietta della Madonna al collo (Ramo Ali), un’ebrea rumena atea (l’intensa Maia Morgenstern) e un greco (l’ironico Akillas Karazissis) raccontano la propria vita davanti a una telecamera che rimanda i loro volti su un grande schermo, in un crogiolo di lingue che amplifica il parossistico scambio di ruoli e il gioco stesso del teatro.

Due ore in cui lo sguardo dello spettatore è costretto a triplicarsi – tra sottotitoli, schermo e corpi vivi in scena – per entrare nelle complesse biografie degli attori-personaggi e ritrovare le linee orribili di una storia europea segnata da fascismi, torture, persecuzioni, migrazioni, rimbalzanti da un paese all’altro, che ora il quarantenne Rau con il suo International Institute of Political Murder e il piglio del documentarista, per quest’ultima parte della trilogia sull’Europa, concentra su Est e il molto vicino Oriente.

Il video è il mezzo usato da Massimiliano Civica nella conferenza L’emozione del pudore per svelarci con generosità le sue analisi registiche su un Orson Wells devastato per l’impossibilità di girare un Mercante di Venezia che si fa riprendere nel monologo di Shylokc. E Nina Simone al pianoforte raccolta nel suo messaggio di rivolta, in un crescendo di tensione prima di permettere l’esplosione dell’applauso.

Con il caustico Ettore Petrolini indicato come esempio perfetto di supermarionetta da Gordon Craig e da Mejerchol’d per la sua biomeccanica. Kinkaleri invece in I’m ok espone i corpi di due giovani neri che si dividono un telo termico dorato, uno di spalle all’altro. Ballano e girano, evocando la vicinanza estrema, la mancanza di spazio e il contatto che forse dà coraggio su quei barconi in balia delle onde. Emettono trascinanti suoni ritmati, i due ragazzi, che alla fine diventano parole da colpo al cuore: casa e amore.