Una tenda impalpabile e aerea che pure sa farsi confine inviolabile innanzi al mistero dell’umano, della sofferenza e della ricerca di sé attraverso l’arte. C’è rispetto cura attenzione e al tempo stesso levità nel modo in cui Connect/ Disconnect, un breve film di Pola Wickham e Betta Lodoli si approssima a una esperienza di arteterapia attraversata e condivisa da sei persone affette dal morbo di Parkinson.

Dietro la tenda ci aspetta una serie di sedie vuote colorate, una accanto all’altra, forse in paziente teatrale attesa di una presenza, o forse come cortese invito a un andare oltre, a intraprendere un piccolo viaggio di scoperta, di riflessione e di immedesimazione. Poi la musica, l’irrompere allegro delle note di un piano, figure appena sfiorate dalla camera, di spalle innanzi a un muro, in una partitura minuta di dettagli, di mani impregnate di colore che stringono un pennello, di sguardi e gesti colti obliquamente, di frammenti. A questo si interseca una tela di suoni, come deviazioni, sospensioni, variazioni nel farsi del ritmo musicale: il battito coinvolgente di un cuore, l’immergersi nel vento o in un respiro, il risuonare delle onde del mare. Poi l’immagine di un foglio bianco solcato da linee perpendicolari a formare un reticolato di piccoli quadretti, ciascuno con coordinate numerate, un po’ come nella battaglia navale. É questo il compito, è questa la via con cui cimentarsi.

«Il progetto ha origine dal mio contatto con Parkinzone Onlus», ha raccontato Pola Wickham, pittrice formatasi a New York e che ora vive in Italia ed espone tra Europa e Stati Uniti, «un’associazione italiana che dal 2003 vede l’impegno congiunto di artisti provenienti da campi differenti e di ricercatori e medici specialisti delle malattie neuromotorie. Insieme studiamo metodologie pratiche per confrontarci in modo propositivo con queste patologie in una prospettiva di coinvolgimento attivo dei pazienti. Ho lavorato con loro per un anno e mezzo come volontaria e insieme abbiamo realizzato un laboratorio di pittura che si è svolto nella campagna umbra, un progetto ideato per supportare persone a diversi gradi della malattia a coordinare mani mente e occhi. Il nostro punto di partenza il lavoro sul divisionismo di George Seurat e Chuck Close. Da qui il foglio bianco quadrettato che diventa lo strumento per la decostruzione dell’immagine e per la sua scomposizione in tante piccole parti, su cui è poi più semplice concentrarsi. Si lavora sul singolo particolare astratto e il risultato finale invece tende al reale, verso il naturalismo». E la camera si accosta alla trama della pelle, alle fronti scavate dalle rughe della concentrazione, alle dita intinte nel colore, al graduale comporsi della rete di sfumature di grigi di neri e di bianchi, all’incedere incerto dei piedi nudi sul terreno, a un movimento del corpo percorso da un lieve tremito, delicato e tenero come quello di una foglia. Rumore di una goccia che precipita, il ritmo si ferma e il pennello sembra che dipinga ma a ben guardare torna indietro e il colore va via scomparendo dal foglio … Che cosa accade?

«La nostra è stata una avventura bella e profonda. Tra noi si è diffusa una atmosfera familiare di fiducia. Sentivo la necessità di ’raccontare’ tutto questo e insieme di andare oltre il racconto in un’opera che fosse film e arte nello stesso tempo. Così mi sono rivolta a Betta Lodoli che grazie a una formazione registica complessa e stratificata, lavora con la videoarte. I ’ritratti’ musicali di Daniele Furlan hanno fatto il resto. Da questo intreccio è scaturita l’idea di mostrare il movimento a ritroso del pennello per entrare meglio nel dettaglio del gesto e del suo travaglio. Indipendentemente dalla malattia, il lavoro di queste persone, le difficoltà che incontrano, esprimono l’essenza del processo artistico. Il centro di tutto è la fatica, lo sforzo, il continuo fronteggiare il limite di se stessi. E questo è un momento di verità assoluta. In questa lotta ci siamo rispecchiati. C’è poi lo specifico della malattia, col suo creare gap, ossia interruzioni delle connessioni corpo cervello, cosa che avviene non a una macchina ma a un essere umano con tutto ciò che questo comporta a livello psicologico e della qualità della vita. Non si possono più compiere diverse azioni contemporaneamente, ma ci si concentra su una alla volta. Così attraverso questo lavoro riflettiamo anche su tutto ciò che diamo per scontato, anestetizzati da questa overdose di stimoli, da questa tempesta spesso ossessiva di azioni contemporanee e sovrapposte, ma non per questo necessariamente più significative. La lentezza o la pausa improvvisa consentono invece di concentraci sul respiro e sul sé profondo e di approssimarci a quegli stati meditativi di mindfullness che rappresentano una fonte di rigenerazione molto profonda. È così che siamo vicinissimi al nucleo umano di ognuno di noi, alla nostra più intima fragilità. Una fragilità che è possibile accettare e abbracciare».

«Prima di allora non sapevo cosa fosse il Parkinson se non superficialmente, il particolare del tremore che è noto a tutti», questa l’esperienza di Betta Lodoli, un tracciato tra regia, sceneggiatura e scrittura. «Ho scoperto che la malattia comporta un vissuto di sofferenza grandissima, una vita costellata da molte medicine e una serie di limitazioni fisiche notevoli. Nel frattempo resta intatta la consapevolezza e quindi si assiste lucidi a questa progressiva perdita di abilità e di espressione di sé con cui è necessario confrontarsi. Il progetto di Pola e di Parkinzone Onlus dà la possibilità di aumentare il raggio delle strategie e delle risposte a questo stato di cose. Dunque mi ha attratta sia umanamente sia per ciò che concerne lo specifico della regia, in quanto mi ha consentito di pormi innanzi a un gruppo di persone che sta a sua volta componendo delle immagini. In questa direzione la scelta di usare la riprese a passo uno, tipiche dell’animazione, ma a ritroso, nasce dal desiderio di scandagliare l’attimo dell’istante creativo e insieme di trasmettere il grumo di resistenze che ogni singola pennellata si ritrova ad affrontare». Lo spirito quello di una attenta indagine documentaristica dunque, ma nello stesso tempo Connect/Disconnect lavora tanto sulla risonanza poetica dell’immagine, grazie anche a un utilizzo molto particolare della sovrimpressione. «Una cifra di montaggio (qui suo e di Wickham in collaborazione con Mario Marrone, ndr) che amo particolarmente. In questo caso permette di evidenziare la stratificazione delle tante prospettive dell’immagine e anche di accomunare i vissuti, di creare punti di tangenza. Nello stesso tempo crea un ritmo, come una danza di dissolvenze incrociate che mi ha consentito di trasmettere attraverso l’immagine in movimento il dinamismo all’interno del foglio e la tensione dell’opera che si viene gradatamente formando». Tutto questo in una dimensione sonora che non prevede voci. «Una scelta che vuole diffondere una atmosfera di raccoglimento e di attenzione all’interiorità: non ci sono che gli esseri umani con la loro presenza, i loro quadri e la natura».

E alla fine l’opera conclusa fa capolino, appare scompare e si sovrappone ai volti che adesso guardano in macchina, primi piani, dettagli di sorrisi, occhi che si rivelano, stanno. Le forme finali sono quelle dell’autorappresentazione e non poteva che essere così: cercarsi, provare a dire se stessi, cogliersi forse per un attimo … oltre il dolore del doversi ritrovare. Dall’intero processo irradia forte il senso di una frammentarietà interiore di cui cerchiamo il bandolo, ipotizzo.
«Non abbiamo cercato questa lettura, ma ci riconosciamo. Siamo frammentati, come un mosaico. Questa finitezza dell’umano, questa filigrana di sottili equilibri abbiamo voluto cercare di guardare in faccia oltre la paura della solitudine e della non accettazione. Da questo si genera la rivoluzione di un sorriso vero. Siamo tanti pezzettini eppure siamo un unicum, anche quando ci sembra di essere incompiuti. Al ritratto di una delle donne, era la più brava, alla fine mancavano solo pochi quadratini …».