Georgi Gospodinov, che il manifesto ha intervistato già nel 2013, è nato a Jambol il 7 gennaio 1968. È lo scrittore bulgaro più tradotto e più premiato a livello internazionale. Presso le edizioni Voland sono usciti: Romanzo naturale, tre raccolte di racconti… e altre storie, E tutto divenne luna e Tutti i nostri corpi (queste ultime due premiate all’Accademia del Ceppo come migliori raccolte al mondo del 2021) e due romanzi, Fisica della malinconia e Cronorifugio, quest’ultimo vincitore del Premio Strega Europeo nell’ottobre scorso. Escluso il primo romanzo, sono stati tutti tradotti da Giuseppe Dell’Agata – che ringraziamo per l’aiuto che ci ha dato per questa intervista -, che sta ora curando una antologia delle sue poesie.

A Gospodinov, che sarà in Italia dal 31 marzo al 4 aprile, abbiamo rivolto alcune domande sulle «ferite», culturali e materiali, della guerra in Ucraina.

Il tempo è il tema ricorrente dei suoi romanzi e racconti. Cosa ha pensato di fronte all’invasione russa dell’Ucraina? Il romanzo «Cronorifugio» finisce con le truppe che nel 2029, come alla vigilia della Seconda guerra mondiale, si sono di nuovo ammassate al confine, come per una ricostruzione di quella data, e allora un proiettile partito per caso fece muovere gli eserciti l’uno contro l’altro…. Siamo a una invasione del passato?

Ho pensato proprio a questo. Ho immaginato come l’armata del passato, l’armata fantasma del passato sia ammassata a una frontiera in teoria solo per una ricostruzione e che poi, a causa di un proiettile partito per caso, i carri armati si muovono, le mitragliatrici cominciano a far fuoco… Quando fai ammassare un esercito da qualche parte si trova sempre un pretesto, alla fine, per iniziare una guerra. Come col fucile di Cechov all’inizio della rappresentazione. Con tutto il mio romanzo Cronorifugio ho voluto dimostrare che nessun passato è innocente. Dimostrare che il passato solo apparentemente somiglia a un rifugio confortevole, ma in realtà non lo è. Putin ha iniziato questa guerra in nome di un passato che non esiste più. E nessuna guerra per il passato può essere vinta. E non deve essere vinta.

La guerra è tornata all’ordine del giorno in Europa con la litania di battaglie, assedi, vittime civili, profughi. Eppure quei crimini non ci hanno abbandonato mai in questo tempo recente, ma la narrazione corrente ha fatto prevalere l’idea che avvenisse in un altrove lontano – oppure vicino come nei Balcani, ma da nascondere. Quindi potevamo essere noi gli aggressori e questo non avrebbe pesato sulle nostre coscienze…

Sì, siamo colpevoli di non aver reagito così duramente a quanto avveniva più lontano da noi, in Siria e altrove. C’è stata una reazione, ma non così unitaria e forte come oggi. Ma questo non significa che ora non bisogni reagire con durezza. Al contrario. Assai pochi avvenimenti, dopo la Seconda guerra mondiale, possono essere paragonati all’aggressione di Putin all’Ucraina. Si tratta di una cosa radicalmente diversa. Qui siamo di fronte a una aggressione in un territorio altrui assolutamente non provocata, di fuoco contro civili, di una tragedia umanitaria, di qualcosa che dura già da un mese… Non vedo nulla di simile in Europa nell’ultimo mezzo secolo. E non ho mai visto tutti i paesi europei così uniti.

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La faglia del crollo dell’Urss, praticamente implosa, è sicuramente stata quella del nazionalismo che ora viene rilanciato nella forma «grande Russia» da Putin. Per il grande scrittore jugoslavo Danilo Kis il nazionalismo è una follia. Ma qual è il suo seme e la sua patologia se ogni volta ri-coinvolge gli uomini e semina morte e distruzione?

Il nazionalismo arriva sempre quando non sai cosa tu sia, quando sei preoccupato e confuso e il mondo di domani ti sembra peggiore di quello di oggi. Allora appaiono i nazionalisti che ti salveranno e ti dicono: «Tu sei infelice, non è vero? La vita e il mondo si sono comportati ingiustamente nei tuoi confronti. E ricordi quanto si stava meglio un tempo? Tu eri giovane e facevi parte di un grande impero. E ora…». Così il mondo viene spiegato alla svelta e in modo semplice, viene proposto un rifugio per il grande passato e la persona, disperata e senza una chiara identità, si arrende. Poi si deve trovare un nemico. Per la Russia sovietica non c’è mai stato problema: il nemico è sempre stato l’Occidente. Così che la vecchia propaganda del passato, che io ricordo da bambino, torna di nuovo come armamento, un po’ impolverato ed ecco fatto.
Nel romanzo Cronorifugio si tratta del fatto che, in una simile situazione di deficit riguardo al futuro, tutti i paesi europei organizzano un referendum sul passato. In realtà Putin ha fatto un simile personale referendum, ha voluto che l’Europa tornasse a prima del 1997, a prima dell’espansione della Nato. E che la Russia tornasse ancora più indietro e correggesse il passato e il cosiddetto errore di Lenin riguardo all’Ucraina. È chiaro che si tratti di un’ossessione per ogni dittatore. Ma noi sappiamo, anche dal film più cretino, che ogni tentativo di aggiustare il passato conduce a cataclismi per quanto riguarda il presente. Il passato non è un carro armato che tu possa aggiustare, il passato semplicemente ti schiaccia.

Putin dichiara di volere difendere la Russia, ma bombardando le città e la cultura ucraina sembra preso da istanze fratricide se non parricide, visto il legame profondo, meticcio, tra le due anime… siamo al suicidio della Russia?

Sì. Senza rendersene del tutto conto in realtà ha aggredito la Russia. In qualsiasi modo finisca la guerra, la Russia l’ha già persa, dal punto di vista economico e simbolico. Ha perso la memoria che rimarrà di questa guerra. Non potrà raccontarla, per quanta propaganda possa mettere in campo, così come raccontava se stessa come vittima e vincitrice della Seconda guerra mondiale. Questa memoria e queste storie saranno ormai ben diverse… Nel suo accecamento, Putin si raffigura davvero chiaramente come nella frase che noi conosciamo da Taras Bulba di Gogol: «Io ti ho creato e io ti ammazzo». Solo che non la ha creata lui. E non può ammazzarla, la ferirà solo gravemente e la Russia continuerà a sanguinare, letteralmente e simbolicamente, per decenni dopo questa guerra.

Qual è la sua memoria del valore mondiale di una città come Odessa, la città dei racconti di Babel, della sua cultura, letteratura e storia ora che torna sul fronte di guerra?

Sono stato una volta a Odessa nel 1990. Bella e povera, era in un momento di grave crisi, scorticata e piena di gatti, così la ricordo. E ancora una cosa che non posso dimenticare: la famosa scalinata del film di Ejsenstejn La corrazzata Potëmkin: vi ho trascorso quasi un’ora, ascoltando in estasi una cantante d’opera che cantava per raccogliere qualche soldo. Poi mi hanno detto che era una delle soliste dell’opera di Odessa. È una città di cui Puškin scrive che tutto profuma di Europa, la gente parla francese e ci sono riviste culturali in diverse lingue. Bombardando Odessa, Putin bombarderà non solo una città, ma il mondo di ieri, con tutti i suoi risvolti di memoria e di cultura. Questo lui non può nemmeno capirlo.

L’Europa dell’Est resta un grande punto interrogativo. Non solo tornano fenomeni di vero e proprio revisionismo storico militante (con formazioni di estrema destra sempre più forti e, in Ucraina, il collaborazionista dei nazisti Bandera è celebrato come eroe nazionale, mentre anche alcuni giornali israeliani ricordano le sue responsabilità nei pogrom di Leopoli e nelle stragi di Odessa e di Babij Jar, cantata anche nel poema di Evtushenko). Ma proprio contro l’Unione europea, molti Paesi aprono un contenzioso sui contenuti della democrazia e dello Stato di diritto assumendo ormai l’idea e i contenuti della «democrazia illiberale» (cara a Putin)…

Quando si parla di Babij Jar spero che i giornali israeliani scrivano anche del bombardamento missilistico fatto proprio là nei primi giorno dell’aggressione. Lo dirò chiaramente: nessuna propaganda, nessuna denazificazione come alibi, possono giustificare le donne e i bambini uccisi, le donne incinte, né i più di tre milioni di rifugiati che hanno abbandonato le loro case.

Come reagisce l’Ue? Meglio di quanto ci aspettassimo. Tutti quelli che ritenevano l’Ue una comunità in disfacimento, ora colgono una posizione assolutamente unitaria. Vedete l’aiuto che singole persone e associazioni offrono ai milioni di rifugiati. Questo accade anche in Polonia e Ungheria, i cui governi fanno parte di quella «democrazia illiberale» di cui lei stava parlando. La Bulgaria è ancora insufficientemente attiva, ma i comuni cittadini reagiscono in maniera del tutto umana e accolgono i rifugiati, sono attive anche organizzazioni non governative e anche le strutture statali più impacciate si danno da fare. Purtroppo da noi la propaganda filoputiniana è molto forte e trova numerosi sostenitori.

Siamo tutti dentro la narrazione delle armi, sono loro ormai a scrivere. Che fine fa la memoria in questa condizione bellica di arruolati, che ruolo ha chi tenta ogni giorno di raccontare in profondo il mondo?

Talora mi va di raccontare quello che vedo e ascolto come storie, e altre volte solo di tacere e di piangere. E che va comunque raccontato. Raccontare tutto. È doloroso, perché anche se sei solo testimone e perdi più testimone indiretto, tu racconti sempre tramite il tuo stesso corpo e il corpo dei tuoi cari. Non c’è nulla per fronteggiare la macchina di propaganda se non una flebile storia personale. Nessuna propaganda può essere più forte di un bambino che scappa dalla guerra col numero di telefono scritto sulla mano per eventuali contatti.