La scomparsa di Vittorio Gregotti (morto a 92 anni), ultimo erede della tradizione del moderno, segna la perdita non solo di un architetto autorevole e di un professionista prolifico, ma quella di un intellettuale impegnato da sempre intorno ai temi della società, della politica e della cultura.
Dal dopoguerra fino agli anni Dieci del nostro secolo, ebbe «il tempo e l’energia per rilanciare nel presente – come scrisse Benevolo – una vicenda passata», quella appunto originata dal Movimento Moderno, selezionando, modificando e revisionando stili e linguaggi dell’architettura, in un’incessante ricerca per individuare teorie e metodi in grado di rispondere con «realismo critico» (L’architettura del realismo critico, 2004) a un «mondo di finzioni», quelle che riteneva alimentassero l’architettura contemporanea distogliendola dai suoi significati disciplinari.

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SI BATTÉ perché la qualità dell’architettura non fosse solo la somma dell’atto creativo (poiesis) e del saper fare (téchne), ma «il risultato della tensione tra forze che si contrastano». Credeva nella «positività del costruire», nella tradizione del mestiere, ma con la finalità di modificare lo «stato delle cose».
Nato a Novara nel 1927, ancora studente comprese il valore della storia, ammirando in casa l’opera di Alessandro Antonelli e frequentando la biblioteca di Annibale Rigotti. L’incontro tra la storia e il progetto contraddistingue i suoi primi edifici novaresi (Palazzo per uffici in via San Gaudenzio, 1960), eseguiti con i suoi soci di studio: Lodovico Meneghetti e Giotto Stoppino.
Nella loro ideazione i temi delle «preesistenze ambientali» sono messi alla prova dopo averli assimilati nel rapporto con Ernesto Nathan Rogers, prima quale collaboratore nello studio Bbpr (Banfi-Belgioioso-Peressutti-Rogers), poi come suo assistente universitario e redattore, tra il 1953-65, della rivista Casabella-Continuità con Guido Canella e Aldo Rossi.

SARÀ L’INCONTRO negli anni Sessanta con la filosofia di Enzo Paci, il Gruppo ’63 (unico architetto ad aderirvi), Elio Vittorini, Umberto Eco, Luciano Berio e molti altri, a evidenziare che il progetto – come racconterà nella sua Autobiografia XX secolo (Skira, 2005) – richiede un confronto con «i linguaggi specifici di ciascuna delle diverse pratiche artistiche» affinché sia «costruzione critica».
Misurarsi con i temi della multimedialità, della cultura di massa, il concetto di «ambiente totale», come accadrà alla XIII Triennale (1963), darà l’occasione a Gregotti di presentare il progetto in «una nuova forma di impegno politico».
L’opposto della deriva alla «mediatizzazione» dell’architettura, da lui denunciata ormai verso la fine della sua carriera, che significa trasferire allo spazio architettonico, mezzi e tecniche a esso del tutto estranee. Piuttosto, la presa d’atto che il «segno architettonico», come bene evidenziò Manfredo Tafuri nel saggio a lui dedicato (Vittorio Gregotti, progetti e architetture, Electa, 1982), deve fare i conti con la forma caotica dei linguaggi visivi dei media tecnologici.

IL PASSAGGIO dalla scala dell’oggetto a quella geografica del territorio rappresenta l’evoluzione più coerente delle questioni poste dal precedente dibattito sui valori ambientali. Un saggio (Il territorio dell’architettura, 1966) e una serie di progetti (Quartiere Zen a Palermo, 1969; Università di Firenze, 1971, Università della Calabria ad Arcavacata, 1973-86) sperimentano nella teoria e nella prassi un’alternativa possibile all’utopismo megastrutturale e a una pianificazione territoriale indifferente agli aspetti spaziali e formali del costruito. Il tanto discusso Zen fu ridotto in uno stato vergognoso di degrado da una scellerata politica della casa e dell’urbanistica locale, non così dissimile da quanto è successo a Scampia o a Corviale.
Gregotti, attraverso i materiali del disegno urbano e del paesaggio, modifica il suo dialogo con la storia che sarà da adesso sempre storia di «trasformazioni»: di luoghi, società, mercati, culture, ecc., «lenta e complessa e non certo rettilinea».
A questi interessi disciplinari più estesi e molteplici – dal design all’urbanistica – corrisponde anche una diversa organizzazione del lavoro progettuale. Nel 1974 Gregotti fonda con Pierluigi Cerri, Pierluigi Nicolin, Hirimochi Matsui e Bruno Viganò, «Gregotti Associati». Con l’uscita degli ultimi tre soci, si aggiungeranno Augusto Cagnardi e Carlo Magnani e in seguito Michele Reginaldi.
Fino agli anni Novanta sarà la città europea l’oggetto principale dell’attività progettuale dello studio. Nel 2018 lo mise bene in risalto la mostra al Pac di Milano dedicata alla lunga carriera dell’architetto novarese (Il territorio dell’architettura, a cura di Guido Morpurgo).

DAL QUARTIERE di Cannaregio a Venezia, allo Stadio Olimpico di Barcellona, dal blocco residenziale in Lützowstrasse a Berlino, al Centro Culturale a Bélem a Lisbona, dal quartiere Bicocca a Milano, all’intervento «Sextius-Mirabeau» a Aix en Provence, Gregotti con coerenza intraprende quelle «civili conversazioni» che – come scrisse Tafuri – lo allontanarono dalla tentazione di fare del progetto occasioni di «carnevali dell’intelletto». Tutto ciò gli aprì il varco per i progetti in Cina degli anni Duemila: Shangai, (Pujiang Village, Recupero dell’area di Waitanyuan), Zhou Jia Jiao (Piano per la Citic Area), Dalian.
In uno dei suoi ultimi scritti, Architettura e postmetropoli (Einaudi, 2011) trovava irresponsabile che la cultura architettonica si dimostrasse «indifferente» alla forma che periferie urbane o città diffusa, assumevano «assediate dei cambiamenti accelerati»; appiattita su modelli di densificazione con incongrui edifici in altezza che mortificavano l’urbanità ancora espressa dalla città della modernità, oltre a quella storica. Pensava possibile «un nuovo ordine spaziale a partire da una critica allo stato delle cose». Ottimismo e ostinazione furono le sue doti. Lo dimostrano la vasta mole di scritti e le architetture intorno alle quali sarà necessario riflettere negli anni a venire.