Doppio ritratto per Vittorio Accornero e Edina Altara a cui il Man Museo d’Arte Provincia di Nuoro dedica la mostra «Gruppo di famiglia con immagini», a cura di Luca Scarlini (fino al 23 gennaio 2022), ideale proseguimento de «Il regno segreto. Sardegna-Piemonte: una visione postcoloniale», in cui la coppia di artisti aveva avuto spazio soprattutto con la produzione grafica. Una creatività dirompente appartiene all’indole dell’uno e dell’altra, interpreti di una stagione artistica che dall’Art Déco (per i suoi pochoir Accornero ottenne la medaglia d’oro all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1925) arriva agli anni ’80 con la realizzazione di disegni e dipinti, specchi, ceramiche, illustrazioni e libri per l’infanzia (incluse le tavole di Edina per Paola Lombroso-Carrara, Storie vere di zia Mariù e il Libro giocattoli, pubblicato da Hoepli nel 1945 con le pagine da ritagliare per costruire sculture tridimensionali), figurini di moda, incarti per cioccolatini e caramelle, scenografie per il teatro e il cinema, cartoline postali, calendarietti profumati, abiti e foulard, la brochure di prima classe del transatlantico Rex (1932).

Di Vittorio Accornero de Testa (Casale Monferrato 1896 – Milano 1982) e Edina Altara (Sassari 1898 – Lanusei 1983) è esposta anche la partecipazione di nozze datata 1922 (insieme al cliché): un pierrot e un’odalisca che reggono un cuore che contiene i loro nomi. Un pezzo significativo, tra quelli esposti al MAN e collezionati da Federico Spano, pronipote di Edina e fondatore dell’Archivio Accornero-Altara di Sassari.

Altri provengono dai depositi dello stesso museo, insieme a libri e disegni del MUSLI – Museo della Scuola e del Libro per l’Infanzia nell’Archivio Fondazione Tancredi di Barolo di Torino, bozzetti dell’Archivio del Teatro alla Scala di Milano e del Museo del Cinema di Torino, il collage su carta Nella terra degli intrepidi sardi (Gesus salvadelu) realizzato da Edina nel 1916 e acquistato da re Vittorio Emanuele III (oggi al Palazzo del Quirinale) e i suoi specchi per la turbonave Oceania in deposito alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.

L’esposizione (il catalogo è pubblicato da Silvana Editoriale) è particolarmente coinvolgente grazie all’allestimento degli scenografi del Teatro di Sardegna (Loïc Hamelin, Sabrina Cuccu e Sergio Mancosu) che hanno trasformato lo spazio museale in un libro di fiabe con il motivo ornamentale della carta da parati che migra in migliaia di piccole foglie/uccelli che volano ai piani superiori. Lì il verde menta, il blu atlantico e il rosa cipria conferiscono alle diverse sezioni un carattere unico con il sottofondo delle canzoni dell’epoca. Tornando al piano terra, sul pavimento il grande tappeto di riviste di moda firmate da Edina è sovrastato dal «soffio di vento» di plexiglass che custodisce la serie di foulard disegnati da Accornero per la maison Gucci (il modello Flora fu realizzato nel 1966 per Grace di Monaco) con quella leggerezza che rimanda proprio a una delle principali qualità della seta. Con entusiasmo e passione Federico Spano restituisce momenti d’intimità di una storia affascinante che è allo stesso tempo pubblica e privata.

È incredibile la somiglianza del tratto di Edina Altara e Vittorio Accornero nelle illustrazioni di moda che realizzarono negli anni ’40, quando non erano più una coppia…
Avendo lavorato insieme per tanti anni gli stili si erano quasi uniformati, anche un po’ appiattiti. Credo che questo non sia stato un bene. Si erano sposati nel ’22 e si separarono nel ’34. Dopo il primo periodo un po’ traumatico, soprattutto per Edina, riallacciarono i rapporti ma non ci furono mai più collaborazioni professionali. Anzi c’era molta gelosia tra loro. I miei famigliari ricordano che quando Accornero andava a trovare Edina, era spesso a pranzo o a cena a casa sua a Milano, lei copriva i disegni che stava facendo perché non voleva che li copiasse. Dal 1941 al ’43 disegnò centinaia di figurini per Grazia e dal ’42 collaborò con Bellezza, diretta da Gio Ponti e voluta dal duce come risposta italiana alle grandi riviste di moda straniere come Harper’s Bazaar e Vogue.

I due armadi sono una sorta di wunderkammern con il loro contenuto da sbirciare: oggetti legati al vissuto di entrambi, fotografie, abiti, scarpe femminili…
Sono gli armadi antichi dell’appartamento che i miei genitori avevano comprato accanto a quello di famiglia. Originariamente erano scuri e cupi, Edina li aveva decorati con il découpage nella seconda metà degli anni ’70, quando anziana e non del tutto autonoma era tornata a vivere a Sassari. Un armadio contiene gli abiti che aveva realizzato per mia nonna Iride, la sorella, e per mia madre a cui aveva confezionato anche l’abito da sposa. Nell’altro, invece, c’è l’album fotografico di Accornero che nel ’16, durante la grande guerra, era sottotenente e aveva preso il brevetto di pilota. Ci sono foto aeree di Pisa e anche di incidenti aerei, insieme ai ritratti di Edina che indossa costumi particolari. Alcune volte li imbastiva apposta per fare le foto e poi li smontava. Faceva vestiti di carta crespa che potevano durare anche solo per una serata.

Forse eri troppo piccolo per avere ricordi di Edina, ad ogni modo cosa ti ha portato ad occuparti del suo archivio e di quello di Accornero?
Anche se ero bambino mi ricordo bene di Edina, avevo 10 anni quando è morta. L’ho vista lavorare a casa ad alcune specchiere, decorare gli armadi e ricordo anche il risotto alla milanese che cucinava. Nel 2005, dopo la mostra a lei dedicata organizzata da Ilisso, mi resi conto che su internet non c’era nulla sul suo lavoro. Chi avrebbe potuto parlarne e valorizzarlo, se non un suo erede? Così ho iniziato a fare delle ricerche in casa, partendo dalla soffitta e guardando negli armadi e nei cassetti: sono saltate fuori cose incredibili che mi hanno dato l’energia per continuare. Ho avuto anche la possibilità di acquisire l’archivio di Vittorio Accornero dalla seconda moglie. Edina era solare, dolcissima, affettuosa. Mia mamma, che con nonna Iride aveva un rapporto di amore e odio, con zia Edina e zia Lavinia, l’altra sorella che viveva a Cagliari, nutriva un sentimento speciale. Erano tutte artiste, tranne Aurora la sorella maggiore, anche se Edina era la vera artista. In casa erano cinque femmine, ecco perché il mio bisnonno, che faceva l’oculista, dalla Sardegna era scappato a Casale Monferrato!

Proprio a Casale Monferrato Edina e Vittorio si innamorarono nel 1922…
Si dice che i due si fossero conosciuti al ballo del circolo dell’Accademia Filarmonica di Casale Monferrato, forse era un veglione in maschera. Si innamorarono e raggiunsero zia Aurora, che all’epoca viveva a Reggello, dove si sposarono. Edina non voleva tornare in Sardegna perché era promessa sposa al marchese Carmelo Manca di Villahermosa Sanjust di Cagliari che rimase perdutamente innamorato di lei per tutta la vita.

Diversamente da Accornero che si firmava in diversi modi, Edina fu sempre Edina…
Max Ninon o Victor Max Ninon era il soprannome che lui aveva fin da bambino. Lo continuò a usare anche da grande, firmando anche con V. Accornero. Mia madre lo chiamava Zio Ninon. Anche nel tempo lui aveva mantenuto i rapporti con la famiglia di Edina e, quando a Natale le mandava i libri, avevano sempre la dedica «a Vittoria zio Ninon». Edina qualche volta si firmava Edina Altara, poi Edina A., Edina A.A. infine solo Edina.

Entrambi collaborarono con «Il giornalino della Domenica» ed erano giovanissimi quando cominciarono a dedicarsi all’arte…
Edina già verso i sette, otto anni aveva una buona mano. Fu scoperta da Giuseppe Biasi, un pittore piuttosto famoso in Sardegna, che la invitò alla mostra alla Società degli Amici dell’Arte a Torino, dove espose il collage Nella terra degli intrepidi sardi (1916) acquistato da Vittorio Emanuele III. Fu un exploit incredibile, benché fosse un’autodidatta totale. Parlarono di lei Margherita Sarfatti, Ugo Ojetti, Leonardo Bistolfi che riconoscevano la sua bravura anche se, tranne Raffaello Giolli, nutrivano delle riserve sulla sua tecnica. Edina non realizzava disegni preparatori, usava direttamente la carta colorata che tagliava e incollava. Paola Lombroso Carrara la chiamava