Berlusconi va sconfitto per via politica, non per via giudiziaria. Questa è l’affermazione ripetuta da anni in ambito Pd e dintorni su un aspetto centrale, costituente del fenomeno berlusconiano. L’affermazione è del tutto ovvia, ma insieme è indice di un modo assai restrittivo di pensare la politica. Anzi di un modo di non pensare la politica.
La condanna definitiva di Berlusconi, sancita dalla Corte di Cassazione, infatti, ha un forte rilievo su più piani. Non solo in quanto ristabilisce la verità, peraltro intuibile, circa il “miracolo” imprenditoriale di Berlusconi, dell’ “uomo che si è fatto da sé”, certificando che è stata parte del “miracolo” una gigantesca e strutturata frode fiscale. D’altronde, la condanna di Previti per corruzione nel caso Mondadori era indirettamente rivelatrice delle autentiche “abilità imprenditoriali” di Berlusconi.
Non solo dunque sul piano strettamente giudiziario e su quello correlato del degrado civile di gran parte della società italiana: la condanna ha anche un forte rilievo sul piano politico. Un piano politico di cui il destino delle “grandi intese”, il solo piano in cui il ceto politico pensa (?) la politica, è l’aspetto meno importante.
La sentenza costituisce letteralmente una vittoria politica in senso pieno, così come una decisione diversa della Cassazione sarebbe stata una gravissima sconfitta politica. Molti commentatori hanno scritto che la sentenza dimostra che anche in Italia vige lo stato di diritto, l’uguaglianza di ogni cittadino di fronte alla legge. Un giudizio condivisibile ma generico se non approfondito.
Quando diciamo che si tratta di una vittoria politica, vogliamo dire qualcosa di molto determinato, avendo in mente il senso comune raggiunto dal mantra di un Berlusconi da sconfiggere per via politica, non per via giudiziaria. Avendo a mente qualcosa che concerne la vita politica di una democrazia nel suo concreto, articolato esercizio, qualcosa che ha a che fare con la storia politica italiana di quest’ultimo (ormai quasi) ventennio.

Un imprenditore è “sceso in campo” per difendere interessi personali dissimulati dalla retorica dell’anticomunismo e dell’amor di patria. Si è servito sistematicamente del potere esecutivo affidatogli e di un parlamento acquiescente, per stravolgere con leggi ad personam il corso regolare della giustizia, ha dispiegato il suo personale potere economico per attacchi alla magistratura, condotti dalle sue televisioni e dai suoi giornali, per condizionarne l’attività, minando quello che è principio basilare della vita democratica: la separazione ed il contrappeso dei poteri, diade questa assolutamente inscindibile.
Nell’emettere la sentenza definitiva, la Cassazione ha realizzato questo principio basilare della democrazia che, come insegnava Einaudi, è ben più di una faccenda di numeri, ma è una faccenda di istituzioni che fissano i poteri e le competenze degli eletti. Questo è stato. Non è accaduto che la giustizia si sia sostituita alla politica, ma più semplicemente è accaduto che il corretto funzionamento delle istituzioni, degli equilibri dei poteri, dei pesi e contrappesi, eredità del più genuino liberalismo e sostanza di un moderno stato democratico, ha resistito alla prevaricazione dell’esecutivo e del legislativo.
La sentenza ha mostrato che la vita politica nella sua complessa articolazione, nonostante i tentativi di stravolgimento, in parte riusciti, ha funzionato. È in questa ottica, l’unica possibile alla luce della nostra Costituzione e dei valori ad essa sottesi, che a vincere contro un esercizio assoluto del potere è stata la politica. Altro che vulnus inferto alla vita democratica da ristabilire con un qualche salvacondotto fornito dalla politica!
Ma la condanna acquista un rilievo particolare se accostata ad un’altra sentenza emessa dalla Consulta, quella relativa alla vertenza tra la Fiom e la Fiat. Anche in questo caso la Corte Costituzionale non si è sostituita alla politica, ma ha fatto valere, come era suo precipuo compito, il principio della libertà sindacale negata dall’azienda.
Ha sancito che le relazioni industriali non possono né debbono svolgersi al di fuori del sistema dei diritti e delle norme costituzionali e dell’attività legislativa con questi coerente (o che tale dovrebbe essere), così da impedire uno sbilanciamento a favore di uno dei due partners. Ancora una volta contro la prassi assolutista dell’azienda, che vede nelle regole un limite indebito ed intollerabile, si è affermato il principio liberale del limite dei poteri e delle forze in gioco.
Abbiamo usato, in piena consapevolezza, il termine «assoluto», sciolto dai vincoli. È questo infatti il nodo politico fondamentale di una lunga stagione. Una lunga stagione non solo italiana. Certo in Italia la questione ha assunto la forma del berlusconismo: malaffare, istrionismo privo del senso della vergogna (e del ridicolo), oscena corte servile. Una forma legata ad aspetti che nella storia italiana tendono a riproporsi.
«Assolutismo del capitale» è l’espressione usata da Mario Tronti per indicare il nucleo centrale della «ragion capitalista», il pensiero unico come pensiero forte, il pensiero unico come pensiero tutto politico (“Berlinguer a Pomigliano”, DeriveApprodi, 2011). Un altro studioso individua nelle tendenze in atto, il controllo di qualsiasi elemento di conflittualità strutturale (strutture culturali comprese) da parte della governance finanziaria, la riproposizione, in un contesto di tardo capitalismo, della «vecchia e mai abbandonata logica dell’accumulazione originaria». Una forma di «neoliberalismo assoluto» (A. Simoncini, “Rivoluzione dall’alto”, Mimesis, 2012). I «governi tecnici» del resto, quelli che non hanno alternative, non sono forse frutto di uno stato di eccezione permanente? E lo stato di eccezione permanente non è il terreno perfetto per sperimentare tutte le possibilità dell’illimitatezza, degli appetiti senza misura?
La «civiltà giuridica» di cui la Costituzione italiana è esempio altissimo, non muta necessariamente mediante logiche progressive. Il mutamento è soggetto alle logiche di corposi presupposti materiali, alle logiche dei rapporti di forza, e dunque anche a logiche regressive. Nel momento attuale tali logiche sono talmente pervasive, corrispondono a presupposti materiali talmente forti ed in Italia il tessuto etico-politico della nazione è ormai in uno stato così miserevole, da farci apparire quasi miracolosa la sentenza della Cassazione che comunque si configura come una vera vittoria politica.
Proprio per le ragioni dette sopra, però, per la forza dei presupposti materiali sottesi alla tendenziale espansione della sfera dell’illimitatezza, sia nella forma-Berlusconi che in quella di Marchionne, dobbiamo avere ben chiara la provvisorietà di questa vittoria. La sua appartenenza ad un tempo sospeso, passibile di grandi balzi all’indietro. Quante volte, in presenza di comandanti inadeguati, una battaglia vinta si è trasformata in una successiva rotta. Se guardiamo al ceto politico che dovrebbe gestire questa vittoria, ci sono ragioni di ottimismo?