Lo scoppio di focolai secondari dell’epidemia di coronavirus, dalla Corea del Sud a Codogno, rende ancora più importanti gli esperti di epidemiologia, capaci di stimare i rischi di ciascun paese alla luce dei flussi di viaggiatori da un punto all’altro del globo. Uno dei principali centri di ricerca è quello dell’Inserm, l’equivalente francese del nostro Istituto Superiore di Sanità.

Alla guida del laboratorio di epidemiologia c’è una ricercatrice italiana, la romana Vittoria Colizza. Insieme a un team internazionale, Colizza ha appena pubblicato sulla autorevole rivista The Lancet uno studio sul rischio di diffusione dell’epidemia nei paesi africani. Per ora, sul continente è stato registrato solo un caso in Egitto. Tuttavia, molti esperti temono che altri casi possano essere sfuggiti alle autorità sanitarie, soprattutto nei paesi in via di sviluppo in cui le attrezzature e la formazione del personale sono risorse scarse. In molti Paesi africani, la Cina è diventato uno dei principali partner commerciali, e questo ha moltiplicato i flussi di viaggio. «Egitto, Algeria e Sudafrica sono i paesi con gli ingressi più numerosi», spiega Colizza. Ma il rischio che in una regione si diffonda il virus non dipende solo dal l’interscambio con la Cina, spiega Colizza. «Conta anche la capacità del paese di effettuare diagnosi tempestive, curare i pazienti e circoscrivere l’epidemia. Ci sono due indici internazionali, si chiamano Spar e Idvi, che misurano l’adeguatezza del sistema sanitario, la stabilità politica e il benessere socioeconomico di uno stato. E da questo punto di vista i paesi più a rischio sono Nigeria ed Etiopia».

Sono indicazioni utili per l’Oms. Che valutazione ne fate?
L’Oms si è mosso bene e rapidamente. La dichiarazione di emergenza è servita soprattutto a mettere in evidenza le carenze dei paesi più vulnerabili. Al momento della dichiarazione, in tutto il continente erano presenti solo due laboratori in grado di effettuare il test per il coronavirus. Grazie all’azione dell’Oms e all’aiuto di organizzazioni no-profit come la Gates Foundation, entro questa settimana i paesi attrezzati dovrebbero essere una quarantina. Non si tratta solo di risorse economiche: è fondamentale la formazione del personale sanitario per la diagnostica e la prevenzione, man mano che conosciamo le caratteristiche del virus. Gli stati africani dal canto loro hanno agito tempestivamente. Attivare i controlli negli aeroporti, che molti paesi avevano già predisposto contro il virus Ebola, serve anche a comunicare il rischio alla popolazione, in modo che ogni persona si agisca e in modo corretto nel caso di insorgenza dei sintomi.

In molti paesi si stanno verificando focolai (ancora limitati) di infezioni secondarie. È già possibile calcolare il rischio che il virus arrivi in uno stato attraverso una tappa intermedia, anziché direttamente dalla Cina?
È una questione che stiamo che abbiamo già iniziato a considerare. Se l’epicentro non fosse solo la Cina, o si spostasse dall’Hubei in un’altra regione, cambierebbe anche il profilo di rischio. Alcuni paesi del mondo già importano casi non provenienti dalla Cina: il paziente zero dei casi registrati in Francia, ad esempio, proveniva da Singapore. Già nel nostro lavoro, pur guardando solo alla Cina, abbiamo fatto l’analisi cosiddetta di clustering per valutare quali sono le provincie pericolose per ciascun paese. Ma per ora solo analisi di scenario, solo ipotetici, anche perché i casi registrati in molti paesi al di fuori della Cina sono ancora molto pochi.