Avrà mai un secondo allestimento l’opera di Andrea Molino Qui non c’è perché, presentata al Comunale, lo scorso giovedì? C’è da dubitarne malgrado per la messa in scena sia stata inventata una strategia con cui si è cercato di interessare allo spettacolo anche un pubblico per il quale l’opera è come il Potëmkin per Fantozzi. Ma il pubblico non c’era; i presenti non occupavano nemmeno un terzo dei posti disponibili. Lo spettacolo però risultava allestito con cura, anche se di gusto un po’ vecchiotto, ma non bolso come quel che si vede in generale sulle scene dei teatri d’opera.

Qncèp, abbreviamo così, è un testo teatrale privo di drammaturgia. È sulla violenza e il dolore, articolato in sei sequenze i cui testi verbali sono stralciati da fonti diverse: ne risulta un collage di citazioni. La prima è un frammento da Levi realizzato con le immagini di decine di autoscatti e passaggi di film amatoriali, quelli fatti con il cellulare o con la tavoletta. Chi avesse inviato al teatro questo suo contributo acquisiva il diritto ad assistere pagando 10 euri. L’impressione è che quasi nessuno ne abbia approfittato per la prima. Il testo utilizzava poi pagine di Elias Canetti (Massa e potere), ma avrebbe potuto essere altrettanto utile il Pilato di Durrenmatt, usando il quale però gli ebrei sarebbero stati mutati da vittime in carnefici, pagine da un manuale per l’edificazione di un muro, una ninna nanna popolare greca, testo e musica, inframmezzata da frasi di Jenny Sawle, seguite da un ritorno di Se questo è un uomo, per passare a prelievi da Shakespeare, Hannah Arendt, Albert Einstein e infine Gitta Sereny.

La musica, che si deve ad Andrea Molino è una specie di concerto per percussioni, elettronica e indeterminato brusio orchestrale. Alcune parti sono sicuramente ben definite dal compositore, quelle per due sassofoni tenore e dei cantanti, i solisti sono David Moss e Anna Linardau, il resto non sapremmo: precise indicazioni di comportamento sonoro otterrebbero risultati non necessariamente identici, ma interscambiabili con quelli di una minuziosa scrittura.

Ovunque comunque prevale la sonorità delle percussioni, tanto che a opera conclusa, uscendo nella famigerata piazza Verdi sembrava ne fosse stata curata la prosecuzione nel caos dei tamburi suonati così, tanto per far casino, diciamo. È un’operazione analoga alle scatole di Judd, al Brillo di Warhol, a tutte le operazioni di trasfigurazione del banale di cui scrisse Arthur Danto, ivi compreso il triplice Tacet di John Cage. Siamo nei pieni anni Sessanta e l’orchestra e i due sassofonisti, Koen Mass e Roeland Vanhoome non mancano di ricordare i jazz progressivo dell’epoca, quello dei kentoniani, e dell’experimental band di Abrams.

In scena, i personaggi conservavano i propri nomi, quindi i personaggi sono loro stessi. Ciò continua il gioco tra il banale e l’arte che riguarderà anche la scenografia con vive immagini di cose comunissime, spazzatura e rifiuti, con un graffito disegnato in scena, ma senza il coraggio d’arrivare all’elogio dei writer, cioè là dove il banale è stupidità allo stato brado.