La diplomazia, arte fin troppo negletta nella contemporaneità post-bipolare, ha il compito di affrontare le dispute bilaterali o multilaterali. Barack Obama, incassato il Nobel per la Pace appena eletto, ha fatto in questi sette anni passati alla Casa Bianca molte guerre ma gli va riconosciuto il grande merito di essere ricorso alla diplomazia per chiudere due “buchi neri” con cui si erano misurate tante amministrazioni democratiche e repubblicane: Cuba dai primi anni Sessanta, l’Iran dal 1979.

Ovviamente, gli Stati Uniti soddisfano precisi obiettivi – nazionali ed economici – anche nella soluzione di tali crisi ma perseguire interessi leciti senza usare la forza rientra pur sempre nella logica della diplomazia. La singolarità della condotta di Obama è se mai di aver dimostrato più senso politico con i nemici che con gli amici. Basta pensare quanto sono costate e costano agli alleati le guerre degli Stati Uniti in Medio Oriente e gli errori dello stesso Obama nella gestione della delicatissima questione ucraina. L’Europa è rimasta scoperta sui confini meridionale e orientale fino a compromettere pericolosamente le sue fonti di approvvigionamento energetico. I governi europei hanno la loro parte di colpa, per essersi dimostrati molto più succubi e sprovveduti della stessa America latina, ma questo è il risultato.
L’accordo che ha posto fine alla lunga controversia per il nucleare iraniano non riguarda solo gli Stati Uniti. Al tavolo del negoziato con l’Iran sedevano i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite più la Germania con un ruolo di contorno per l’Unione europea. È chiaro tuttavia che sulla questione della temuta bomba di Teheran si giocava la posta grossa del ripristino di un rapporto diretto fra Usa e Iran dopo la rivoluzione degli ayatollah, lo sfregio dell’occupazione a Teheran dell’ambasciata americana e il disastro dell’operazione tentata alla disperata da Carter. Sia su Cuba che sull’Iran gli Stati Uniti – se hanno ottenuto dei vantaggi – hanno dismesso una politica inquinata dalla riserva mentale del regime change. La pace fra Obama e Castro non ha provocato opposizioni in America latina. Se mai, sono stati proprio i paesi latino-americani, smentendo il luogo comune di una loro irrimediabile subalternità verso il grande vicino del Nord, ad aver via via reso indifendibile agli occhi dell’intero continente – governi e opinioni pubbliche – il non possumus che durava dai tempi di Kennedy. Il caso dell’Iran è diverso. L’intesa raggiunta a Vienna coronando il lungo negoziato a Losanna, che, come spesso avviene con gli atti della diplomazia, si regge su un compromesso fatto di piccole o grandi rinunce reciproche, era destinata comunque a provocare resistenze e opposizioni che vanno ben oltre i fatti oggetto dell’intesa stessa.

L’accordo sul nucleare iraniano riguarda tutti i tre processi principali che caratterizzano la crisi di transizione in atto nel Medio Oriente: la messa in discussione dell’ordine istituzionale e di potere garantito a lungo da élites che hanno gestito una specie di capitalismo dipendente senza riuscire a colmare la divaricazione fra stato e società, la guerra ormai allo scoperto fra sunniti e sciiti sullo sfondo di un generale soprassalto dell’islam politico, lo sconvolgimento degli schieramenti a livello regionale che risalivano con pochi mutamenti ai tempi della guerra fredda. La riammissione dell’Iran nel gioco del Medio Oriente, con il peso che compete allo stato musulmano più accreditato storicamente e più istituzionalizzato, ha allarmato tutti quelli che erano abituati a condurre il proprio gioco all’ombra dell’egemonismo americano. È ovviamente rivelatore che i due oppositori più facinorosi a quell’accordo siano Israele e Arabia Saudita, considerati appunto fino a ieri, prima del sovvertimento di cui sopra, i due principali alleati degli Stati Uniti nell’area.
L’Iran non è diventato di per sé un alleato ma gli Stati Uniti hanno rispolverato la vecchia politica che consiglia di avere comunque un polo di riferimento o in Iraq o in Iran. L’Iraq è stato distrutto da George W. Bush e Obama non è riuscito a rimediare. Resta l’Iran, che fra l’altro è il solo a combattere l’autoproclamato Califfato con soldati e pasdaran: su questi «volontari», la Casa Bianca non dovrebbe avere le stesse prevenzioni che ha rivelato per i russi all’azione in Ucraina. Nell’intervista a Friedman, il presidente americano ha detto che l’America continuerà a collaborare con i suoi alleati del Golfo e Israele «per fermare il lavoro che l’Iran sta facendo al di fuori del programma nucleare». Si tratta di una bugia o di una clausola di stile. Il «lavoro» dell’Iran sul terreno è proprio quello che serve agli Stati Uniti. E non è colpa dell’Iran se le guerre americane hanno favorito, dall’Afghanistan all’Iraq, gli sciiti e Teheran.
Per l’Arabia Saudita la bomba iraniana sarebbe la fine del mondo (del mondo musulmano che si esaurisce nel wahabismo). Ma quello che teme veramente il nuovo re saudita non è la bomba che Khamenei ha sempre negato di voler costruire bensì una «insostituibilità» che una dinastia in ritardo di due o tre rivoluzioni e fin troppo compromessa con il jihadismo non è più in grado di assicurare.
A sua volta, l’altro membro di questa specie di Fronte del rifiuto, Israele, sa molto bene che la normalizzazione non potrà prescindere da una qualche forma di Stato palestinese. La «questione palestinese» è diventata una «questione israeliana». E se si può capire l’oltranzismo preventivo di Netanyahu per ritagliarsi comunque uno spazio in un sistema che sta cambiando, si capisce molto meno l’articolo davvero brutto, in forma di finta lettera al direttore pubblicato sul Corriere della Sera da Riccardo Pacifici, ex-presidente della comunità ebraica di Roma.

Un aspetto decisivo dell’accordo è la forse ritrovata sintonia fra Usa e Russia favorita dal feeling personale fra Kerry e Lavrov. Obama ha chiamato Putin al Cremlino per ringraziarlo del contributo dato all’accordo. Volendo cercare in Europa un nemico della firma storica di Vienna bisogna andare a Kiev. Il test risolutivo potrebbe essere a questo punto la Siria. Il presidente americano potrebbe aver perdonato a Putin l’iniziativa che bloccò ai tempi delle armi chimiche di Assad l’intervento che l’America era pronta a lanciare. Dopo tutto, ben più delle stesse guerre in Iraq e in Libia, senza parlare del lontano Afghanistan, è proprio la Siria la «madre» di tutti i disastri.