Libro importante, questo Contro l’ideologia del merito di Mauro Boarelli (Laterza, pp. 150, euro 14), che raccoglie e sintetizza un lavoro di ricerca critica decennale. Un libro che andrebbe letto in parallelo con La tirannia della valutazione di Angélique Del Rey (recensito sulle pagine di questo giornale il 23/ 06/2018), per mostrare lo stato della riflessione sull’istruzione a livello europeo oggi. Boarelli ricostruisce la genealogia dell’ideologia del merito, partendo dalla teoria del capitale umano e dal fallimento della sua applicazione all’istruzione: un’ideologia che non è riuscita a calcolare il tasso di rendimento nel campo dell’istruzione, perché non è possibile misurare gli effetti esercitati sulla società nel suo complesso, in termini economici o di benessere.

NONDIMENO, il concetto di capitale umano è rimasto sul terreno, rivestito dei nuovi abiti della dottrina del New Public Management, della quale vale ricordare almeno tre capisaldi: cultura manageriale, introduzione di forme di incentivazione fondate sulla performance, sostituzione della qualità con l’efficienza.
Lo strumento attraverso il quale il mercato si afferma in luoghi in cui, non essendoci produzione di merci, non esiste, e deve quindi essere istituito in modo artificiale, è la valutazione, come ricorda Valeria Pinto nel suo importante Valutare e punire. Si afferma così l’idea che il mercato rappresenti la forma «naturale» di organizzazione della società, sotto forma di ideologia del merito.
A fondare questa ideologia contribuisce il concetto di competenze, una delle parole chiave del lessico costruito intorno al merito. Poco importa che lo statuto epistemologico di queste bizzarre entità sia insussistente: «le competenze agiscono come dispositivi di disaggregazione, contribuiscono a indebolire i legami sociali e le forme di cooperazione, favoriscono la costruzione di identità individuali competitive sul piano economico e autosufficienti sul piano sociale».

IL SISTEMA EDUCATIVO subisce una torsione utilitaristica; non più imparare a imparare come occasione di sviluppo culturale, senza fini immediati, ma apprendere una forma specifica di comportamento: l’adattamento alle esigenze dell’impresa e a forme specifiche di flessibilità.
La cultura del merito si muove entro il perimetro dello Stato neo-liberale, che agisce in tutte le sue articolazioni adottando la cultura e le forme organizzative proprie dell’impresa, e contribuisce a spogliare il modello competitivo delle sue connotazioni ideologiche per offrirlo al senso comune come derivazione di un «ordine naturale». Boarelli ne ricostruisce le principali strategie operative: la ricerca della trasparenza, che si oppone all’esistenza di luoghi della vita sociale sottratti alla logica del controllo; e il processo di vittimizzazione, che riduce la capacità di agire di propria iniziativa, organizzandosi in modo autonomo, cui corrisponde il culto degli «esperti». Questi offrendo soluzioni personali ai problemi sociali, medicalizzano la collera individualizzandola e trasformandola in rabbia: la sottraggono a una elaborazione pubblica, incentivando il disimpegno. A queste si aggiunge la metabolizzazione: «il sistema mediato dal mercato depotenzia ogni fermento che si manifesta al di fuori degli schemi e crea un’atmosfera che agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione» (Mark Fisher). Ancora, la misurazione delle performance e delle competenze, che trasforma i valutati in co-produttori dei processi di valutazione.

INFINE, la sostituzione del conflitto con la competizione, una forma corrotta di conflittualità che può fare a meno dell’altro reale, sostituito con un grafico o un numero.
L’ideologia del merito compie, insomma, una vera e propria invasione di campo gestita dallo Stato, che costringe tutti i settori sotto il suo controllo – scuola, università, sanità, pubblica amministrazione – ad assumere modalità organizzative e gestionali proprie dell’impresa, negando di fatto le idee di cittadinanza e di uguaglianza.