Tutta la vita in uno scatto, si può sintetizzare così il percorso del fotografo dello sport italiano Vito Liverani, che con Farabola ha fatto la storia del fotogiornalismo italiano. Primo in Italia, a metà negli anni Cinquanta del secolo scorso, ad aprire un’agenzia fotografica sportiva e a intuire le grandi trasformazioni dello sport. Oggi il suo archivio è dotato di oltre un milione di foto e rischia di andare al macero, nel silenzio delle massime istituzioni sportive.

Come nasce la passione per la fotografia?

In famiglia eravamo in otto, avevo nove anni quando cominciai a lavorare dal droghiere, l’anno successivo dal panettiere e a 12 anni dal vinaio. Portavo delle gerle piene di bottiglioni, a volte salivo fino al quarto piano, non c’erano gli ascensori. Quel lavoro mi spezzava la schiena, volevo cambiare. Mio padre leggeva il Corriere della Sera, dopo cena davo uno sguardo agli annunci di lavoro, una volta lessi: “Barratelli via Passerella Milano fotografo cerca ragazzino”. La mattina dopo esco di casa alle 9 senza dire nulla a mia madre e dopo un quarto d’ora sono lì, il padrone del negozio, che era il più vecchio e famoso fotografo di Milano, ritraeva tutti gli artisti, mi disse che andavo bene e di cominciare subito. Feci presente che volevo informare mia madre, ma lui insistette, disse che mi avrebbe lasciato andare a mezzogiorno. Mia madre era in pensiero, tutti mi cercavano, quando tornai a casa mi dette subito quattro scappellotti, le dissi che sarei dovuto tornare alle quindici dal fotografo, ma non ne voleva sapere, le dette dei bacini e si ammorbidì. Quel pomeriggio entrai nella camera oscura con Barratelli, vidi che con la mano muoveva l’acqua nella bacinella e il cartoncino prendeva la forma di una foto. Fui preso da un entusiasmo incredibile, è difficile spiegare quell’emozione, fu un momento magico, capii che avrei fatto il fotografo per tutta la vita. Da Baratelli imparai molto ho lavorato dal 1941 a metà del 1942. C’era la guerra, il materiale fotografico era scarso, vi era difficoltà a farlo arrivare, quando avevo 14 anni mi disse di cercare lavoro altrove.

Dove andasti?

Chiesi informazioni al negozio dove andavo a comprare materiale fotografico, mi indicarono lo stabilimento fototecnico di via Dotti Bernini 59 a Milano, lì mi dissero che cercavano proprio un ragazzo che imparasse a fare il fotografo. Da Baratelli in un anno e mezzo avevo imparato a fotografare e a sviluppare, sapevo fare tutto, mi assunsero subito, facevano gli ingrandimenti, le porcellane, le cartoline, le riprese in esterno, era il più grande stabilimento di Milano. Fu la mia fortuna, dopo due mesi sapevo fare lo sviluppo, dissi al padrone dello stabilimento che volevo fare qualcosa di più impegnativo e mi mise alle riproduzioni, affidandomi a un operaio prossimo alla pensione. In mezza giornata imparai le riproduzioni e a fare i ritocchi. Da Baratelli avevo imparato la fotografia, allo stabilimento di via Dotti Bernini tra il ‘43 e il ’45, imparai tutto quanto industrialmente riguardava il campo della fotografia, sapevo ritoccare, fare l’ingrandimento, le immaginette, escluso le cartoline, che non mi piaceva farle perché era un lavoro meccanico. Dopo la Liberazione i fotografi cominciarono a lavorare bene, facevano le foto per strada, Barratelli mi chiese di tornare a lavorare con lui, aveva aperto un nuovo studio in corso Buenos Aires, insieme a un socio, ma quest’ultimo dipingeva sempre e della fotografia non gli importava nulla. Dopo tre settimane li salutai, andai da un fotografo che era fuggito dall’Alto Adige, un fascista ricercato dai partigiani per alcune malefatte, perciò aveva cambiato aria. Era un fotografo bravo, ma aveva un caratteraccio, urlava sempre, al mattino guardava tutte le foto che avevo stampato, diceva che se una foto non veniva bene bisognava buttarla via, per lui le foto dovevano essere perfette, questo però mi ha aiutato a diventare un vero fotografo. Tornai in via Dotti Bernini, il proprietario mi assunse subito, era vecchio e sperava che prendessi la direzione dello stabilimento, stetti tre anni facevo otto mezze giornate e una fino alle 17. Nel tempo libero lavoravo in proprio, avevo un laboratorio in casa, mio padre mi affittò una camera, era uno duro dovetti pagarlo.

Come ti sei avvicinato allo sport?

Una sera un amico mi portò nella palestra di boxe dell’Anpi in viale Romagna vicino casa. Avevo il pugno forte provai a boxare, ne misi giù tre e il maestro mi disse che il 25 aprile del ’47 ci sarebbe stato un meeting nella sede dell’Anpi di via Corridoni e che avrei dovuto aprire l’incontro boxando con un altro, uno che picchiava sodo. Lo misi giù alla seconda ripresa e l’allenatore mi chiese di passare professionista. Feci altri 33 incontri di boxe, poi presi un colpo a un occhio, non ci vedevo più, in ospedale mi proibirono di proseguire con la boxe, rischiavo di perdere la vista. Frequentai la palestra ancora per un anno, assistevo ai combattimenti, incontravo gli amici. Una sera mi venne in mente di farmi dare un lenzuolo da mia madre e puntare un faro contro, misi due pugili dietro e feci le foto. Quella volta anche altri volevano mettersi in posa, scattai una quarantina di foto, la sera dopo andai in palestra con le foto stampate, ebbi un successo enorme. Quelli che non c’erano volevano anche loro farsi fotografare, due sere dopo in palestra anziché i soliti quaranta erano il doppio, molti l’avevano detto agli amici, non boxavano ma l’idea di farsi ritrarre in posa con i guantoni e i pantaloncini tirava. Alcuni davano la foto alla fidanzata, c’erano quelli che ne cambiavano una ogni mese e chiedevano più copie.

Ti limitasti alla palestra dell’Anpi?

La voce si era sparsa, facevo foto in tutte le palestre di boxe di Milano, la sera dopo riportavo le foto, che erano anche di alta qualità per l’esperienza accumulata nello stabilimento di via Dotti Bernini. Al cinema Principe di Milano ogni venerdì c’erano incontri di boxe di professionisti e cominciai a fare foto ai pugili. Nel dopoguerra a Milano c’erano 19 quotidiani e agli incontri venivano tanti giornalisti, alcuni mi chiesero le foto ma io non sapevo che bisognasse andare al giornale per venderle. Il primo ad aiutarmi fu Giuseppe Signori de L’Unità, un grande giornalista sportivo intenditore di boxe, mi disse che in redazione non avevano foto di pugili e che volevano comperarle. Mi invitò a passare da lui un giorno con una scatola di foto perché le avrebbe selezionate, gliele portai, ne scelse dodici, mi accompagnò in amministrazione e mi fece avere 500 lire, per poco non svenivo. Capii che se avessi lavorato per i quotidiani avrei guadagnato tanti soldi. Davanti al Palazzo dei giornali in piazza Cavour a Milano, chiesi agli altri fotografi come facevano a vendere le foto, andai anch’io per redazioni, La Notte, L’Informazione, Il Lombardo. Cominciai a frequentare l’Arena di Milano, dove si svolgevano sette meeting di atletica in notturna e qualcuno anche di livello internazionale. Un giornalista della Gazzetta seguiva il rugby, ma nessuno andava a fare le foto, a Milano c’erano due squadre, ma giocavano la domenica, giorno in cui erano tutti a San Siro, andai a fotografare il rugby. Un giorno Lo Sport Illustrato mi chiese se ero disponibile ad andare a Lione per un meeting di atletica leggera Italia-Francia, mi pagavano le spese. Al ritorno in treno viaggiava con me un signore anziano, mi disse di essere il direttore dell’agenzia Sport Informazione e mi propose di entrare in società, avrebbero unito alle notizie le mie foto aumentando il costo per i giornali, a me avrebbero pagato le foto e a loro i proventi delle notizie, ma gli affari non tiravano, dopo tre mesi li salutai.

Cosa facesti?

Aprii uno studio tutto mio alle case popolari dove abitavo. Divenni amico di Carlo Martini, fotografo che collaborava con la Gazzetta. Un giorno in redazione mi mostrò una foto in prima pagina de Lo Sport illustrato, c’era il volto sofferente di un pugile, la scritta sottostante diceva che l’autore, un fotografo svedese, aveva dovuto fare quasi 2 mila scatti prima di cogliere quell’attimo, allora con 80 lampi esaurivi la batteria, poi aggiunse:” Questi sì che sono fotografi”! Dissi che foto del genere le avevo fatte anch’io, ma non le stampavo perché non le comprava nessuno, stampavo solo quelle dove gli atleti venivano bene, erano belli. Il caporedattore e la segretaria sorrisero sotto i baffi, me ne andai un po’ mortificato. Sono uno permaloso, andai a casa e per quattro ore cercai i negativi freneticamente, senza neanche mangiare, selezionai circa venticinque foto, tornai alla Gazzetta e le mostrai al caporedattore, che dopo averle visionate mi chiese di aspettare, perché voleva mostrarle al direttore. Tornò e disse che le compravano tutte mi avrebbero dato 250 mila lire, una somma enorme, quando lavoravo prendevo 27 mila lire al mese, per me rispondeva a un anno di lavoro. Inoltre, mi chiesero di fare un servizio fotografico settimanale sugli incontri di boxe, mi avrebbero dato 40 mila lire a settimana. Uscito dalla redazione mi fermai in cortile per riprendermi, mi dissi niente più foto tessere, comunioni, matrimoni, immaginette dei morti. Andai a casa e dissi a mio fratello, che faceva il facchino, di mettersi in società con un fotografo che conoscevo, avrei passato loro tutto il lavoro che facevo, mi sarei occupato solo di foto sportive.

La foto della borraccia tra Bartali e Coppi è passata alla storia. Quanto conta per un bravo fotografo cogliere l’attimo, visto che nello sport tutto è molto veloce? Quella foto la fece Carlo Martini con il quale divenni molto amico. Conosco bene la storia perché me la raccontò lui. Nel 1952 fu mandato al Tour de France dalla Gazzetta, non era stipendiato, gli pagavano una certa somma, doveva trasmettere al giornale tre o quattro telefoto al giorno. Coppi conquista la maglia gialla al Tour, il giorno successivo è riposo, quello che segue è il giorno della foto. Coppi e Bartali erano in fuga, il terzo è Robicchi, tutti parlano della borraccia in realtà è una bottiglia di plastica. Carlo Martini disse a Coppi che doveva mandare al giornale una foto mentre il campione si dissetava pedalando. E’ stata una foto concordata. Allora non si poteva dare l’acqua ai corridori con certa libertà, occorreva l’autorizzazione del direttore di gara. Martini, dette la bottiglia di plastica a Bartali che a sua volta doveva passarla a Coppi, Bartali bevve un sorso e passò la bottiglia a Coppi, che sorseggiò e la buttò via. Martini si mise in una curva e colse proprio l’attimo del passaggio della bottiglia. La foto divenne famosa perché alla fine di quell’anno Sport Illustrato fece il numero speciale su un anno di sport, in copertina misero proprio quella foto.

Come nasce l’idea di aprire l’agenzia Olympia?

Verso la metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, le agenzie milanesi avevano tutte nomi con la parola press, fotopress, agenpress, ero alla Gazzetta e chiesi al direttore Gianni Brera, che nome avrei potuto dare alla mia agenzia, mi disse: “Liverani non mettere un nome straniero anche tu, mi state tutti sui coglioni con quel press”. Mi intimidì, gli chiesi di proporre uno, e lui:” Facciamo le olimpiadi a Roma chiamala Olimpia”. Non potevo, la mia portinaia si chiamava Olimpia. Poi ci pensai e non sembrava un brutto nome.

Hai capito prima di altri la necessità di aprire un’agenzia di fotogiornalismo sportivo?

Ho capito l’importanza della velocità, con i giornali bisognava essere veloci. A San Siro quando facevo le foto, subito partiva uno con il motorino e andava nello studio a svilupparle. Sapevo che alle 17 uscivano almeno un paio di quotidiani, un’ora dopo la fine della partita erano già sul giornale La Notte, scatenando l’ira del direttore del giornale concorrente, che usciva solo con l’articolo.

La professione di fotografo sportivo ti ha consentito di conoscere atleti famosi e giornalisti. Chi ricordi in particolare?

Gianni Rivera, oltre a essere stato un grande calciatore, a mio avviso il migliore della storia del calcio italiana, era molto educato, rispettoso di tutti. Ricordo che nei primi anni al Milan, voleva andare a vivere da solo, la società avrebbe pagato una donna che badasse alle pulizie di casa, ma i suoi genitori non volevano e lui non si ribellò. Tra i giornalisti ricordo con particolare affetto Beppe Viola, lo conoscevo da ragazzino, era molto intraprendente, veniva nelle palestre di boxe, vendeva le foto che facevo e ricavava sempre qualcosa. Al cinema Principe c’erano 700 persone, 500 si facevano fotografare con i pugili, per ogni foto che scattavo prendevo 200 lire, lui le vendeva a 400 lire e teneva la differenza. Voleva fare il giornalista, lo portai a Sport Informazione e lo presentai al direttore, quel giorno stesso lo spedì a Monza a un incontro di pugilato con 200 lire, ma il solo viaggio di andata e ritorno costava 300 lire, voleva metterlo alla prova. Fece carriera, fino a diventare direttore, poi passò alla Rai, ma era sempre senza una lira, puntava tutto sui cavalli. Era molto generoso, dopo la vendita dell’agenzia Olympia fu lui a insistere perché ricominciassi con una nuova agenzia, facemmo insieme il libro sulla Juventus.

Perché hai venduto Olympia?

Nel 1980, un sabato mattina si presentarono due signori nel mio ufficio, mi fecero alcune domande sull’agenzia, pensavo fossero della Finanza. Chiesi come mai quelle richieste, uno di loro, ex presidente della Borsa di Milano, mi disse che erano disposti a comprarla e mi chiese quanto volevo. Dissi loro che non avevo alcuna intenzione di venderla, ma insistette perché indicassi una cifra, sparai 700 milioni di lire, rispose che andava bene, ma l’accordo si sarebbe sottoscritto il 31 dicembre, alle 19 mi presentai davanti al notaio e alle 20,30 andai a festeggiare, ero ricco. Andai in America a divertirmi per tre settimane, l’accordo prevedeva che continuassi a fare il direttore dell’Olympia come stipendiato. Quando tornai quelli dell’amministrazione mi dissero che accadevano cose strane, fatture gonfiate per centinaia di milioni, in un mese avevamo fatturato quanto l’intero anno precedente. Chiamai il proprietario e gli dissi che l’andazzo non mi piaceva, presi la liquidazione e andai via. L’agenzia era stata acquistata come copertura, serviva a evadere il fisco. Infatti nel 1984, il presidente dovette riparare all’estero, era il periodo di Tangentopoli.

Che pensi dei fotografi sportivi di oggi?

Oggi la fotografia la fa la macchina, l’ultima volta che sono stato a San Siro ho visto uno che faceva le foto poi ha telefonato in redazione e ha detto: “Te le mando, guardale”. Fanno le foto e dopo venti minuti sono già in redazione, è una cosa triste, non c’è più la fantasia. Sai cosa vuol dire fare una fotografia e poi svilupparla come vuoi? E’ un’emozione enorme. A volte la stessa foto la stampavo prima in bianco e nero, poi in rosso e infine in verde, mi divertivo e mi rendevo conto di che cosa ero capace di fare.

Che fine farà il tuo archivio?

Questo è il secondo, il primo dell’Olympia aveva 500 mila foto. Quando decisi di ricominciare fondando la nuova agenzia Omega Fotocronache, si diffuse la voce, mi ritrovai una cinquantina di fotografi che volevano vendere il loro archivio per pochi soldi, chi chiedeva ventimila lire e chi duecentomila lire, svendevano il lavoro di una vita, una vergogna. Poco tempo fa un americano voleva comprare solo l’archivio del ciclismo, mi offriva parecchi soldi, mi son chiesto che fine farebbe il resto, un archivio senza le foto del ciclismo non ha senso. Ieri è venuto un signore che mi ha offerto 170 mila euro per questo archivio, che contiene più di un milione di negativi, vorrebbe comprarlo per fare le mostre fotografiche, ma occorre un lavoro di catalogazione. In giro non vedo appassionati, per fare questo lavoro bisogna amare la fotografia fino in fondo. Oggi i fotografi non hanno intuizione, quando andavo in un posto mi guardavo intorno, mi concentravo su ciò che non mi quadrava. In quei frangenti scattava l’intuizione.