Quando il 12 aprile 1981, lo Space Shuttle Columbia decollò per la sua prima missione, l’orgoglio di una nazione e, più in generale, la cieca fiducia nell’irrefrenabile progresso della storia, segnarono un punto importante nella simbolica (e vana) gara dell’evoluzione umana. Una competizione, al solito, con regole scritte da pochi ma seguite da tanti. Dopo i primi passi sulla Luna, progettare e realizzare un mezzo di trasporto che potesse prendere la via del cielo e far ritorno sul pianeta come un qualsiasi aeroplano, aveva nuovamente infuso un senso di onnipotenza.

 

«POSSIAMO FARE TUTTO», avranno pensato donne e uomini della Nasa e con loro i governanti e poi quei cittadini desiderosi di una bella storia per rivendicare la propria evoluzione, alla ricerca di una testimonianza che certificasse l’appartenenza a qualcosa di più alto del semplice vivere nelle miserie del quotidiano.

Dopo la sorpresa e l’eccitazione, però, l’impresa eccezionale si trasformò nella più banale delle routine. Uno Shuttle è decollato, un altro è atterrato. Così per cinque anni.

Missione dopo missione, dalla prima pagina dei giornali, il mezzo di trasporto più costoso al mondo, era slittato a quelle successive, ai trafiletti di poche righe, alla notizia d’agenzia. E si sa, quando sono in gioco miliardi di dollari, la normalità deve accompagnarsi all’eccezionalità.

Lo Shuttle potrà anche essere simile a un aereo, ma per staccarsi da terra, oltre agli appaltatori, ha bisogno di un immaginario collettivo. E se il mondo non si occupa della Nasa, sarà la Nasa a occuparsi del mondo.

COSÌ SI ARRIVA al fatidico annuncio per bocca del duo presidenziale Ronald Reagan e George Bush: nella prossima missione del Challenger, l’altro Space Shuttle in servizio, tra i sette componenti dell’equipaggio vi sarà un’insegnante, insomma una di voi.

Dopo un’ampia selezione (circa diecimila candidati), la scelta cade su Christa McAuliffe, presentata come un’onesta e infaticabile lavoratrice, una persona a cui era affidata la formazione delle future generazioni e immancabilmente una moglie e madre. Insomma, la perfetta testimonial degli anni Ottanta, interprete del sogno che unisce l’ideale al business, orgogliosamente votata a dimostrare che l’umanità guarda e procede speditamente verso l’alto.

Il mondo non si cambia, progredisce.

SE NON FU IL DESTINO, al modo di una tragedia greca, furono certamente interessi politici ed economici a mettere Christa McAuliffe, e sei astronauti di professione, dentro la navetta che il 28 gennaio 1986 dopo circa settanta secondi, a causa del malfunzionamento di alcune insignificanti guarnizioni denominate O-ring, esplose provocando la morte dell’intero equipaggio di fronte a milioni di persone attonite, accorse in Florida per assistere all’evento o che erano davanti a un teleschermo per partecipare visivamente a una storia, il cui esito prese improvvisamente una traiettoria imprevista e tragica.

Di tutte le vicende prima, durante e dopo la catastrofe si occupa Challenger: L’ultimo volo, miniserie in quattro puntate targata Netflix che ha tra i suoi produttori J.J. Abrams e la sua Bad Robot. Lavoro documentario nel quale i creatori Steven Leckart e Glen Zipper, senza grandi sforzi d’immaginazione, assemblano una quantità notevole di materiali di repertorio e poi, attraverso numerose interviste, mettono a confronto i famigliari delle vittime, a cui è affidato il compito di rappresentare la purezza di un ideale, con i timorosi esperti che non seppero imporre i loro più che motivati dubbi, e i «carnefici», cioè quelli che reputarono gli interessi dei contractor un dogma incontrovertibile.

E se questa serie manca, appunto, in raffinatezza e originalità di linguaggio, riesce comunque a tracciare con ritmo e passione i percorsi che portarono allo scontro fatale tra chi desiderava essere parte di una grande storia e chi, producendo e vendendo illusioni, rendeva ogni vita piccola e insignificante al cospetto di un mero accordo commerciale.