«Eselkopf!» ‘Asino!’. Con trivialità muscolare, nel 1917 l’accademico grecista Ettore Romagnoli bollava le «menome deiezioni» della scuola filologica tedesca condensando il proprio livore in un volume dal titolo significativo: Minerva e lo scimmione. La copertina era un capolavoro dell’illustratore Enrico Sacchetti: un repellente scimmione simbolo della Germania che «lancia i suoi viscidi tentacoli» su una venusta Minerva, la Grecia. I filologi tedeschi, tra soffocanti apparati critico-eruditi e iniziatici stemmata codicum – questa la tesi di Romagnoli – stavano irrimediabilmente precludendo la fruizione dei nostri classici, sopprimendo la lussureggiante vena esegetica dell’italico genio: invece, citando il compianto Enzo Degani, la piena «comprensione dell’opera d’arte» appariva ora «attingibile solo mediante una sorta di mistico contatto». Liquidati, in un attimo, studi che tanto avevano contribuito a comprendere la classicità greco-latina producendo insuperate edizioni di testi antichi. Una simile violenza verbale in bocca a un accademico evoca – lugubre presagio – le sagome sinistre del manganello e dell’olio di ricino che di lì a poco si sarebbero allungate sul nostro paese. Romagnoli diventerà presto corifeo del nascente regime fascista (è del 1933 il suo discorso su Mussolini «filosofo e poeta») dal quale sarà gratificato e onorato, come si conviene, fino alla morte nel 1938.
Gli antefatti di una simile degenerazione polemica si collocano un paio di decenni prima. Nel 1897 e 1899 le Università di Catania e Palermo mettono a concorso la cattedra di letteratura greca. In commissione figura, fra gli altri, il veronese Giuseppe Fraccaroli. Tra i candidati si presenta, in entrambi i casi, il giovane Nicola Festa, allievo di Girolamo Vitelli. Vitelli era allora il più celebre filologo e papirologo italiano: formatosi in Germania; socio di prestigiose accademie; membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione nonché, dal 1920, senatore del regno. Ebbene, auspice Fraccaroli, in entrambi i casi Festa – che pure aveva prodotto una dignitosa edizione di Bacchilide – esce malconcio dal concorso e in entrambi i casi, su indicazione di Vitelli, il Consiglio Superiore suggerisce l’annullamento degli atti. Il ministro accoglie il primo parere, non il secondo: il concorso di Palermo è valido.

Il Pindaro di Fraccaroli
Intanto Fraccaroli, che fin dal 1894, nella sua traduzione di Pindaro, si era mostrato assai critico verso il metodo filologico, stronca con una durissima recensione il Bacchilide di Festa: accusa – con tanto di corredo onomatopeico – le «espettorazioni del Vitelli e dei suoi scolari», tra cui il futuro editore delle Epistole ed Egloghe di Dante «reverendo padre scolopio Don Ermenegildo Pistelli: speriamo che non diventi mai papa, altrimenti ci manda tutti all’Inferno, peuh!». La filologia del Vitelli è ritratta quale «metodo scempio e ciarlatanesco». Nella polemica si cerca di coinvolgere persino il Pascoli. Semplificando un po’, è l’estetica di Fraccaroli contro la critica testuale di Vitelli. E Vitelli replica, con dotta puntualità, nell’opuscolo ll Signor Giuseppe Fraccaroli e i recenti concorsi universitarii di letteratura greca. Fraccaroli, a suo agio con la violenza espressiva, rincara le volgarità verso le «escandescenze vitelline» invitando il collega a riporre le insinuazioni nelle sue «coproteche». Finalmente, di fronte a «insolenze triviali», Vitelli sceglie il silenzio.
È una tregua effimera. Nel 1909 Romagnoli – che proprio recensendo il Bacchilide di Festa aveva formulato la cosiddetta teoria dei sassolini, la «folla di minimi veri» filologici utili soltanto «ad imbrogliare il passo» – raccoglie il testimone da Fraccaroli. In una serie di conferenze attacca direttamente il nume tutelare della filologia Ulrich von Wilamowitz al grido delenda philologia: memorabile il capitombolo prosodico con la pronunzia di «esègesi» e «esègeta» che Vitelli non gli perdonerà. A esacerbare ulteriormente gli animi giunge, nel marzo 1914, il concorso per la cattedra di greco di Milano. Presidente di commissione è Fraccaroli; tra i componenti, Vitelli e Romagnoli. Si presenta, forte di pubblicazioni e dell’insegnamento in Germania, un giovane Giorgio Pasquali che viene bocciato con un giudizio severissimo: «mancanza di senso letterario, erudizione inopportuna e intempestiva, scrive malissimo la propria lingua», barbarie dovuta a «l’uso del tedesco che contamina via via l’italiano». Scrivendo a Fraccaroli il 28 dicembre 1913, Romagnoli rivela che i due erano già d’accordo; eppure, pochi mesi prima, proprio Fraccaroli si rivolgeva cordialmente a Pasquali chiedendogli notizie intorno ai nuovi frammenti di Callimaco. Tanto basti. Quel giudizio concorsuale – «documento di parzialità che fa pena», lo bollò Gaetano De Sanctis – è un manifesto contro gli studi filologici. Vitelli stende una dettagliatissima controrelazione e il Ministro annulla gli atti concorsuali. Da lì in avanti è un crescendo, col che si ritorna a Minerva e lo scimmione.
Nel frattempo l’Italia era entrata in guerra, e contro la Germania. Il clima di acceso nazionalismo favorì la facile equazione secondo cui i sostenitori del metodo filologico tedesco anche dovevano essere accusati di germanofilia politica. Vitelli dovette difendersi e protestare un patriottismo che la sua educazione risorgimentale (era nato nel 1849) non doveva consentire di mettere in dubbio. Nell’estate del 1917 stese una replica a Romagnoli il cui titolo, Filologia classica e… romantica, puntava evidentemente gli eccessi di matrice estetizzante. A ottobre vi fu la disfatta di Caporetto. Il manoscritto giaceva ancora sulla scrivania nel 1920, quando Vitelli ne annunciava l’imminente pubblicazione. Quello stesso anno, in risposta a nuovi attacchi di Romagnoli, usciva Filologia e storia di Pasquali: la scienza filologica – questo l’assunto di Pasquali – comporta una comprensione integrale del mondo antico e costituisce la premessa per qualsiasi approccio al testo, a livello scolastico come universitario, anche in vista della traduzione. Era la linea che dalla filologia integrale del Wolf sarebbe approdata alla nuova filologia, «disciplina storica» nel senso più pieno, di Michele Barbi. L’intervento, equilibrato, dotto e metodologicamente inoppugnabile rendeva superflua ogni ulteriore replica. Vitelli rinunciò definitivamente e tornò ai suoi papiri.

Il manoscritto nel bombardamento
Nel ’34 giunse la richiesta di giuramento di fedeltà al Fascismo da parte dell’Accademia dei Lincei (nel ’31 Vitelli non aveva giurato essendo già fuori ruolo). Rispondendo direttamente al ministro Francesco Ercole, Vitelli rifiutò seccamente: «[non] riesco ad intendere come le mie convinzioni puramente scientifiche possano o debbano esser condizionate a considerazioni extrascientifiche, mutevoli queste insieme al Governo a cui lo Stato affida la sua amministrazione». Morirà l’anno dopo. Il manoscritto di Filologia classica e… romantica passò alla sua collaboratrice Medea Norsa e rischiò di perdersi nel bombardamento che nel 1944 ne distrusse la casa. Fu salvato dalle macerie da un’altra allieva di Vitelli, Teresa Lodi, che nel 1962 lo pubblicò presso Le Monnier corredandolo di una densa Nota bibliografica. Divenuto introvabile, è reso ora nuovamente disponibile grazie a un benemerito editore trentino (G. Vitelli, Filologia classica… e romantica, introduzione di Luciano Canfora, La Finestra Editrice, Lavis, pp. XXVI-102, € 18,00). Una Postilla di Rosario Pintaudi annuncia il recupero del manoscritto di cui si erano perse le tracce dopo il primo approdo in tipografia: è oggi consultabile tra le carte Vitelli della Biblioteca Laurenziana di Firenze. L’introduzione di Canfora ricostruisce puntualmente il clima di linciaggio nazionalistico e i relativi corollari accademici.
Recentemente lo stesso Pintaudi ha pubblicato la corrispondenza tra Vitelli e Fraccaroli, che cessa, comprensibilmente, nel marzo del 1898. Fino all’ultimo bigliettino Vitelli ha per il collega espressioni di elogio e approvazione. Già nel 1899 si arriverà alla resa dei conti: quella stima che pareva incondizionata sarà cancellata in un attimo, senza ripensamenti. Pintaudi chiosa con onestà: «Quanto grande è la distanza da questo Vitelli a quello che qualche anno prima non perdeva occasione di incensare il collega Fraccaroli». Canfora giudica l’episodio «nulla più che una faida accademica» culturalmente irrilevante. Sarà. Un grande studioso di storia delle università amava celiare con i suoi giovani studenti: «Ricordate: homo homini lupus, sed professor professori lupissimus!».