La città ideale – frutto di un’utopia e di un’interferenza metafisica – che è diventata realtà: Rawabi (colline in arabo) ha cominciato ad essere abitata nel 2013. È una città modernissima situata tra Birzeit e Ramallah, la prima pensata, progettata e costruita dal business man miliardario americano-palestinese Bashar Masri, con un significativo investimento del Qatar e l’ambizione di ospitare tra venticinque e quarantamila residenti. La bandiera palestinese sventola mentre le ruspe spianano e le carrucole a braccia delle gru innalzano edifici confortevolmente omologati: appartamenti residenziali, uffici iper tecnologici e anche mall dove trascorrere il tempo libero con un accenno alla tradizionale architettura palestinese in blocchi di pietra chiara (un po’ come quella finta del lussuoso Mamilla Mall a Gerusalemme).
Il messaggio promozionale è affidato al volo di un aeroplanino di carta, il cui destino diventa ancora più incerto quando la scritta Rawabi scompare sul palloncino che una bambina lancia verso l’infinito, proprio come il sogno di una Palestina libera. I fotografi Andrea (italiano è nato nel 1976 a Taranto) e Magda (francese, è nata nel 1986 nei dintorni di Parigi) hanno iniziato a raccontare questa storia nel 2009, nello stesso anno in cui i sono conosicuti a Betlemme, quando il progetto era poco più che un film d’animazione 3D. Il lavoro si è appena concluso ed ha conseguito vari riconoscimenti internazionali, tra cui il Premio Marco Pesaresi 2017 con l’esposizione alla 27esima edizione del Si Fest di Savignano sul Rubicone dal titolo On Being Now (fino al 30 settembre).

Nata dalla collaborazione con lo storico festival fotografico, anche la partecipazione di I am a woman. No more and no less (progetto sostenuto dalla Ong riminese EducAid in Palestina) alla Galleria dell’Immagine di Rimini, nell’ambito della rassegna Rimini Foto d’autunno (fino al 28 ottobre). Grazie alla rete dell’associazione Dpo – Diabled People’s Organization – i fotografi hanno ascoltato le storie di Fatmeh, Hana, Tahreer, Masa, Farah, Asma, Nermin… donne di età compresa tra 5 e 47 anni, ritraendole in Cisgiordania, nelle loro abitazioni a Jenin, Nablus, Ramallah, Yatta, Beitfurik, Betlemme. Sfidando tabù sociali e discriminazioni, la forza di queste donne è nella libertà di scegliere il proprio destino, nonostante la loro disabilità.

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In tutti i vostri lavori non c’è mai l’immediatezza dello scatto, basti pensare ad esempio a «Sinai Park», in cui l’idea di progresso ed economia si trasformano in una sorta di parco giochi abbandonato…
Per noi è importante avere un approccio investigativo rispetto all’argomento che trattiamo. Anche in questo lavoro realizzato nel Sinai, dove andavamo per le «vacanze di visto». Infatti, per avere il visto israeliano e poter vivere in Palestina, ogni tre mesi dovevamo uscire dal paese e rinnovare il visto turistico. Gli unici posti accessibili via terra, anche per questioni economiche, sono la Giordania e l’Egitto. Naturalmente con la speranza di poter rientrare con il visto, cosa che non è mai garantita. Quindici si recava in Egitto per necessità. Nel Sinai era impressionante la realtà di quegli hotel abbandonati, strutture gigantesche che non si capiva se fossero state terminate e poi abbandonate o mai finite. La prima volta abbiamo fatto qualche scatto di appunti. Sinai Park è un progetto che si è definito molto lentamente, ci sono stati momenti in cui eravamo molto confusi, ma poi il lavoro ha preso la sua direzione.

Tra «Sinai Park» e «Rawabi» c’è un collegamento nell’idea dell’ambiguità dell’architettura e del contenitore urbanistico per raccontare la realtà sociale e politica in un modo meno prevedibile…
Per ogni progetto – almeno è stato così per Sinai Park e Rawabi – c’è stata una prima impressione surreale che abbiamo cercato di definire: ci creava un sentimento forte. Per Rawabi avevamo dalla nostra una maggiore esperienza e conoscevamo molto bene la Palestina. L’idea del contenuto del progetto – seguire la nascita di questa città – era molto più evidente. Ci colpiva la sproporzione tra la scala umana e quella di queste strutture sintomatiche di un’economia liberale che fa parte di un processo di globalizzazione. Rawabi è solo un esempio di questo fenomeno che rappresenta un cambiamento forte in Palestina e che abbiamo documentato nel nostro primo lavoro Palestinian Dream. Solo dopo averlo realizzato abbiamo scoperto il lavoro di Larissa Sansour! L’avevamo chiamato Palestinian Dream. Conoscendo la Palestina con la realtà dell’occupazione, dei profughi, della guerra, ci sembrava qualcosa di completamente alieno. Una realtà creata artificialmente al livello economico con l’apparizione delle banche, compagnie di assicurazione e agenzie immobiliari… tutto basato su un’economia finta che ha totalmente bisogno di aiuto esterno, senza il qualeciò non sarebbe possibile. C’è la volontà di creare questa bolla di illusione di normalità che corrisponde anche a un grande mutamento rispetto all’attitudine dei palestinesi con la resistenza. In Palestina l’idea non più di resistere, ma di vivere normalmente finché le cose possano cambiare ha un certo impatto ideologico difficile da gestire.

Dal punto di vista emotivo, invece, qual è stato l’approccio in «I am a woman. No more and no less» realizzato per l’Ong EducAid?
Abbiamo condiviso una grande emozione. Per due anni siamo entrati nel contesto intimo delle famiglie. Purtroppo nella società palestinese c’è l’idea che una persona con disabilità non possa farsi una famiglia. Ma, non avendo la pressione sociale di doversi sposare, le donne che abbiamo ritratto possono svolgere alcune attività che normalmente un’altra donna palestinese si trova a fare. Fatmeh, ad esempio, è fotografa, Tahreer ha imparato a guidare, Asma gioca a basket dalla sua sedia a rotelle… Tutte persone con una enorme forza vitale e il desiderio di agire, non di continuare a lamentarsi della propria condizione.

Nel firmare i vostri lavori Andrea e Magda come gestite la questione dell’autorialità?
I nostri primi lavori importanti li abbiamo fatti insieme, questo ci ha permesso di renderci conto che realizzare un progetto fotografico non significa solo scattare. Rimanda a una serie di azioni che arrivano a formare il lavoro, dall’interessarsi a qualcosa, discutere di una tematica, convincersi che quell’aspetto è importante e può essere illustrato in un certo modo, andare sul posto. La decisione di andare a indagare in una direzione l’abbiamo sempre fatta in due, come la preselezione, la selezione, la post produzione, tutti momenti di confronto che viviamo insieme. Il momento dello scatto diventa aneddotico e, alla fine, è solo una piccola parte del lavoro d’autore.