Adolfo Ceretti e Roberto Cornelli, criminologi e docenti presso l’Università Bicocca di Milano, hanno scritto un libro importante: Oltre la paura. Cinque riflessioni su criminalità, società e politica (Feltrinelli, pp. 250, euro 18). Il loro sguardo sulle questioni affrontate è ampio, avvolgente e libero tanto da pregiudizi quanto da semplificazioni. Ed è un libro importante proprio per questo: Oltre la paura invita infatti a riconoscere che la realtà è complessa e non banalizzabile, come spesso invece risulta banalizzata nel discorso pubblico, distorta e strumentalizzata da malintese esigenze politiche o comunicative. Ceretti e Cornelli inducono, attraverso il loro ragionare, a diffidare delle strade abitualmente battute, a rifiutare risposte e soluzioni univoche e semplificanti. Il male è, ma al tempo stesso non è, nelle cose, per parafrasare il verso di una poesia di Giovanni Raboni.
Come anticipato dal sottotitolo del libro, le riflessioni dedicate da Ceretti e Cornelli al tema dei rapporti fra criminalità, società e politica sono cinque, a ciascuna delle quali è dedicato un capitolo. Ma in realtà i capitoli sono sei. I primi cinque potrebbero essere definiti di stampo ricognitivo: i problemi vengono individuati e scandagliati non solo alla luce di un vastissimo apparato letterario di riferimento (di cui dà conto la bibliografia finale) ma anche sulla base di dati e statistiche che rendono l’approccio molto concreto. L’ultimo capitolo invece ha un carattere propositivo.

Timori da contaminazioni

Il dato di partenza, alla cui dimostrazione è dedicata la prima riflessione, è duplice: da un lato, negli ultimi venti anni in tutti o quasi i Paesi europei, e in Italia ancor più nettamente, «si è registrata una significativa riduzione dei reati denunciati più gravi, come l’omicidio, nonché di quelli dal forte impatto mediatico, come la rapina o il furto in abitazione»; eppure, da un altro lato, criminalità e sicurezza costituiscono «una delle maggiori preoccupazioni dei cittadini». «La comunità è assillata» dunque «da timori di contaminazioni e di invasioni» aldilà di quanto sarebbe giustificato, ma neppure è lecito liquidare questi timori come fossero «un abbaglio di massa». Ogni paura è legittima in quanto tale, e la domanda da porsi è allora quali siano le sue «fondamenta».

La possibile risposta a questa domanda è oggetto della seconda e della terza riflessione, dedicate alle «violenze urbane» e all’«odio razziale»: se è vero che chiunque è potenzialmente autore di gesti violenti (essendo ormai superato il mito secondo il quale la violenza apparterebbe perlopiù ai soggetti affetti da disturbi mentali o sarebbe addirittura il frutto di predisposizioni biologiche) e che il nostro agire dipende dalla collocazione di noi stessi nel contesto nel quale viviamo e dalle relazioni che rispetto a tale contesto instauriamo, è altrettanto vero che i luoghi che abitiamo sono spesso inadatti ad accogliere le vite di ciascuno in una dimensione relazionale. Ma la configurazione degli spazi urbani è a sua volta il frutto di politiche di cittadinanza incapaci di includere le moltitudini di «individui atomizzati» e di «gruppi disomogenei» che si trovano ad abitarli: «Rom, stranieri, homeless, sofferenti psichici, malati di Aids, omosessuali, donne abbandonate, adolescenti angosciati, ma anche coppie giovani in cerca di un’abitazione o lavoratori precari sono tutti esempi concreti, assai diversi tra loro e non sovrapponibili per statuto, di quelle fragilità che coabitano ammassate e confuse, e che si trovano a fronteggiare sentimenti di rabbia, disperazione e impotenza ed episodi di violenza».

Così si crea una precarietà dei legami sociali per effetto della quale sguardi e gesti degli altri possono diventare minacciosi di per sé, e per effetto della quale ogni situazione può diventare conflittuale e distruttiva, anche senza esserlo in sé; e così si possono spiegare episodi come quello del taxista ucciso a Milano nell’ottobre 2010 da due ragazzi per aver investito accidentalmente il cane della fidanzata di una di loro, o come le sommosse nelle banlieus parigine nel 2005, alle quali il governo francese aveva reagito introducendo una sospensione dei diritti costituzionali che l’allora ministro dell’interno Sarkozy aveva giustificato quale misura necessaria per potenziare la lotta a giovani di periferia definiti racaille (feccia).

Il multiculturalismo amplifica poi la potenziale distruttività prodotta dai vuoti relazionali e dalle conseguenti carenze identitarie: l’altro diverso da noi ci minaccia a maggior ragione, mette in pericolo le nostre terre che invade, arriva a suscitarci non solo odio ma perfino disgusto, e per questo vorremmo non solo respingerlo ma addirittura eliminarlo. Perché la contaminazione «richiede atti di purificazione che igienizzino il mondo dalla sporcizia». I fatti di Rosarno del 2010 ne sono un esempio; come lo sono del resto, dal lato istituzionale, le politiche nazionali e locali di gestione dell’immigrazione, in generale, o dei campi rom in particolare (e si pensi ai campi rom di Milano). La verità è che il razzismo, «ormai entrato nelle maglie di alcune amministrazioni, attenua il suo carattere aggressivo e violento, ma diventa più pervasivo. Discrimination with a Smile, o anche Racism without Racists, come scrive Eduardo Bonilla-Silva. Si tratta di quei comportamenti adottati da pubblici ufficiali o da privati cittadini che, direttamente o indirettamente, comportano una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla “razza”, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che hanno lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica».

La paura ormai occupa quindi la quotidianità delle società contemporanee, erodendone la vita comunitaria: le strade appaiono insicure, piene di ombre. Siamo spaventati, angosciati. Le nostre esistenze si incrociano con quelle di persone diverse da noi, che non vorremmo neppure vedere. Vorremmo ordine e pulizia, e per questo invochiamo dallo Stato «istanze di controllo coercitivo, che si ritiene siano le più efficaci per ristabilire l’ordine sociale, sia attraverso la costruzione di spazi difendibili sia attraverso l’espulsione dei soggetti indesiderati».
A queste politiche di controllo sociale sono dedicate, sotto profili diversi, la quarta e la quinta riflessione: la quarta, sotto il profilo delle forme di controllo degli spazi urbani, apparentemente fisiologiche; la quinta sotto il profilo, invece patologico per definizione, del contenimento della devianza e della criminalità. Crediamo allora di poterci difendere dai pericoli della vita quotidiana «attraverso nuove forme di architettura urbana, segreganti ed escludenti», ed è il caso delle gated communities, ben rappresentate nel film messicano La zona del 2007, o attraverso l’attribuzione agli organi di governo locale di poteri speciali; e crediamo analogamente di poter neutralizzare (o meglio, «incapacitare») i delinquenti semplicemente incarcerandoli e buttando via la chiave, spogliando il carcere di qualunque finalità rieducatrice e risocializzante (al netto delle quali il carcere rimane un luogo in cui si può e si deve solo sorvegliare e punire, secondo la denuncia risalente a Michel Foucault). Non stupisce, da questo punto di vista, che il carcere stia diventando oggi anche una «moderna espressione dell’istituzione asilare»: scomparsi gli ospedali psichiatrici, rimane infatti il carcere il luogo deputato a sottrarre alla vista non solo i delinquenti ma anche i soggetti affetti da disturbi mentali, a loro volta disturbanti rispetto alle esigenze di ordine e pulizia. Ma «la psichiatrizzazione del carcere», una volta pensato quest’ultimo in chiave di pura e semplice «incapacitazione», «finisce inevitabilmente col saldarsi con un processo di patologizzazione dei comportamenti antisociali, cosicché dopo la permanenza in un carcere che non cura vengono rilasciati soggetti multiproblematici in territori incapaci di declinare politiche di prevenzione e di salute mentale». E qui si vede, in ultima analisi, che il circolo è vizioso.

Una giustizia riparativa

Di fronte a tutto ciò, e per interrompere il circolo, Ceretti e Cornelli offrono, da parte loro, una nuova declinazione della paura: da sentimento di esclusione a pietra fondante della costruzione di nuovi percorsi fondati sulla fratellanza, sulla reciprocità, sul reciproco riconoscimento di ogni altro come uguale a sé, fuori da logiche tanto utilitaristiche quanto puramente caritatevoli. «Che cosa può ridare fiato», infatti, «a un progetto di fraternità aperto e inclusivo, se non, paradossalmente, proprio il riconoscimento di una paura – che ci accomuna tutti – di rimanere soli ad affrontare i pericoli per la sicurezza (ambientale, economica, sociale, individuale)?». Si tratta insomma di immaginare società decenti e civili, che contengano cioè regole tali da impedire l’umiliazione dei singoli e della loro dignità (vuoi da parte delle istituzioni, vuoi da parte di altre persone); e per costruire società simili occorre non solo riconoscere diritti e lottare per mantenerli, ma anche e soprattutto costituire le condizioni necessarie perché ciascuno possa costruirsi vite dignitose, realizzando le proprie capacità e potenzialità.

È dunque un progetto politico democratico quello che offrono Ceretti e Cornelli, carico di implicazioni pure in campo penale; e di questo progetto indicano infine anche due esempi di pratiche già realizzate. La prima, di tipo sociale, è rappresentata dal Sistema nazionale di orchestre giovanili e infantili di Josè Antonio Abreu, che in Venezuela produce dal 1975 integrazione sociale attraverso la musica. La seconda, di natura specificamente penale, è rappresentata da quella forma di giustizia riparativa che va sotto il nome di mediazione «reo–vittima», consistente in una «procedura in cui vittima e autore del reato possono, se lo consentono liberamente, partecipare attivamente alla risoluzione dei problemi che sorgono dalla commissione del reato attraverso l’aiuto di una parte terza imparziale, il mediatore». Oltre la paura ha tutti i connotati di una di quelle «grandi narrazioni», di cui a buona ragione Ceretti e Cornelli lamentano l’assenza nel discorso pubblico e politico.