Fra sogni infranti e piccole rivincite, routine che annichilisce e pericoli della notte, ruvidezza dei personaggi e angoli di silenzio e armonia, ecco che, nella Grande Mela della fine degli anni ’90 prende forma una ingombrante presenza, l’Honduras, immagine paradigmatica delle infinite esistenze latinoamericane negli Stati Uniti, allegoria delle aspirazioni migratorie che si infrangono, quando riescono a concludere il loro viaggio infernale, sul muro più alto e invalicabile della storia: il sistema sociale.

NELLA VORTICOSA New York è ambientato il romanzo dello scrittore honduregno Roberto Quesada, Big Banana, datato 1999, che esce ora in Italia nell’ottima traduzione di Giuliana Panico (Alessandro Polidoro, pp. 339, euro 18), e ha come protagonista un giovane immigrato dall’Honduras, Eduardo Lin, lavoratore di un’impresa edile, il cui sogno è di diventare un famoso attore di Hollywood.
«Il crepuscolo arrotonda gentilmente gli angoli bruschi delle strade. L’oscurità incombe sulla fumigante città di asfalto. Tutto l’asfalto secerne luce. Dalle insegne luminose sui tetti erompe luce, luce che turbina vertiginosamente per le vie, luce che colora rutilanti tonnellate di cielo», scriveva John Dos Passos in Manhattan Transfer (1922), ed era già, in nuce, la metropoli descritta da Quesada, composta da infiniti barrios, microquartieri che ne costituiscono il cuore pulsante, il serbatoio di energia-lavoro che permette a tutto il mastodontico meccanismo di continuare a girare incessantemente.

Il lettore sarà così trasportato nella quotidianità di esistenze minime sull’orlo di una costante implosione: vite che si ripetono come litanie impazzite, da una parte all’altra della vorticosa metropoli, nel ritmo «casa-lavoro-casa», che implica attese intollerabili, il freddo delle lunghe passeggiate e la pericolosità dei ritorni serali, nei quartieri più poveri. «Bastava scendere dall’autobus per sentire quell’atmosfera che ti confinava ai piedi di una parete indistruttibile e inesorabile, che nessun alpinista nell’universo avrebbe osato affrontare; un muro di volti scontenti, di occhi smarriti e di passi frettolosi, come se un secondo di ritmo perso bastasse per dire addio all’esistenza».

Eppure, anche in simili quotidianità, nelle pieghe dei rapporti umani, si nascondono inattese luminosità: l’incontro di Eduardo con Casagrande, ad esempio, figura fondamentale che rappresenta l’esperienza, l’eccentricità e anche l’arte di sapersi muovere nella complessità del quartiere e della città intera – «era musicista, fotografo, cantante, mistico e professore». Le lunghe chiacchierate davanti a un caffè, i balli, una temperatura sessuale e alcolica sempre alta sembrano proteggere i personaggi dal freddo e dalla metropoli, in una sorta di invisibile nube che assopisce le coscienze e permette di sopravvivere. New York: luci e ombre di una città che di giorno esiste per tutti, ma di notte, in alcuni quartieri, come il Bronx, si trasforma in un buio pericoloso e ostile. Così Eduardo, claudicante come un ubriacone, con una birra aperta sempre in mano, si mimetizza per riuscire a tornare a casa la sera.

La recitazione per il protagonista si trasforma presto in un’attività totalizzante, di cui ha bisogno nella vita piuttosto che sul palcoscenico, in un’arte segreta e piena di dignità che permette di non perdersi, di non cadere nella artificiosa rete del successo o del fallimento. Le esistenze migranti restituiscono così una condizione fondamentale dell’uomo, lontana da facili esaltazioni e da fugaci trionfi, verso la presa di coscienza di una transitorietà che è una straordinaria forma di saggezza: riflettori che anziché illuminare un ego, indicano una via che sparisce in lontananza.