Quando la regista F. riceve l’incarico – nell’omonimo racconto di Friedrich Dürrenmatt – di indagare sulla scomparsa della moglie dello psichiatra von Lambert scopre, tra l’altro, che a spingere la donna alla fuga forse aveva contribuito l’interruzione dell’osservazione minuziosa del marito sulla sua malattia mentale. Come se la donna, che odiava essere controllata dal marito, pur restando insieme a lui, non avesse tollerato l’interruzione dello sguardo indagatore dell’altro su di sé.

Il desiderio di essere osservati sembra essere il tema portante del libro di Vanni Codeluppi, Mi metto in vetrina, (Mimesis). Il testo si concentra su due questioni: la prima riguarda i metodi e i moventi che spingono gli utenti dei social network a rendere pubblico, narrativo e interessante il proprio privato; la seconda è la vetrinizzazione, brandizzazione della politica e il conseguente stretto legame tra potere e media per la costruzione della leardership.

Secondo il filosofo Byung-Chul Han la trasparenza è il frutto della collaborazione attiva dei cittadini che costruiscono il panottico digitale e si denudano non per un obbligo esterno, ma per il bisogno di esposizione, diventando sfruttatori di se stessi e oggetto di sfruttamento (La società della trasparenza, Nottetempo). Anche il rapporto tra media e potere è ormai basato sulla retorica della trasparenza, di opinioni, stile di vita e progetti politici.

Nel connettere la messa in vetrina privata con la costruzione della leadership prodotta dai media, Codeluppi segnala che l’esibizione di se stessi e la necessità di essere oggetto delle reazioni di apprezzamento degli altri genera la rinuncia all’esercizio della critica: «il dissenso non è previsto, coerentemente a quella potente filosofia della positività che si trova alla base del funzionamento del Web».

Questioni di brand

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Ma senza dissenso è possibile la politica? Assistiamo a una progressiva tribalizzazione secondo l’autore: i politici parlano per immagini, «pensano per immagini» e vivono in campagna elettorale permanente. Il leader è una marca, come per esempio Matteo Renzi, che per far funzionare il dispositivo di brand awareness su cui si basa la sua strategia politica, deve occupare tutto lo spazio mediatico disponibile. Il processo richiede l’equilibrismo difficile di restare uno tra la gente, pur non essendo fino in fondo la «gente». La costruzione della marca è questione che riguarda ormai pienamente la politica. I marchi di successo funzionano perché incorporano l’insieme dei valori di un’appartenenza identitaria.

Se la politica non offre più modelli di identificazione e progetti di trasformazione sociale, allora i marchi possono fornire un sostituto, un surrogato nella costruzione sociale dell’identità, composta da nicchie di consumo (la comunità dei fan di Hello Kitty o di Apple), che garantiscono l’unica appartenenza sociale disponibile per l’individuo atomizzato. Il consumatore regredisce e si chiude nella propria vita privata rendendola pubblica e facendone un tempio.

Come se il bisogno di essere guardato, il bisogno di essere oggetto dell’interesse di qualcuno potesse sopperire alla completa secolarizzazione e individualizzazione del neoliberismo, la cui unica ideologia dominante permessa è affidata al consumo.

Se non c’è più nulla in cui credere, nulla da trasformare, nessuna rivoluzione da compiere, dove si realizza il connaturato bisogno di oltre degli esseri umani? Cannibalescamente diveniamo noi stessi l’oltre per il quale vale la pena combattere: quanti like ha raggiunto il nostro ultimo post? O il nostro ultimo selfie? La nostra storia esiste solo se possiamo documentarla e se viene apprezzata. Come può la narrazione della nostra vita essere la hit del nostro pubblico? I cinque minuti di notorietà sono diventati una visibilità permanente per una nicchia di seguaci. La liquidità della vita affettiva, dell’impegno politico, dell’appartenenza a un collettivo è compensata con gli «amici» di Facebook, per molti dei quali non siamo altro che un nome sulla newsfeed. Tutto si decide sull’essere o non essere popolari. In questo delirio della presenza lottiamo contro le forze oscure, opache e imperscrutabili degli algoritmi che stabiliscono le regole dell’apparire, ma sul cui funzionamento vige il segreto più sacro. Qui la trasparenza è tabù.

A caccia di visibilità

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Nella società dell’abbondanza definita dal giurista statunitense Yochai Benkler nella Ricchezza delle reti, dove regna la regola della condivisione, improvvisamente ritorna la scarsità. Scarsità di attenzione per l’essere indebitato, impegnato nella formazione permanente (di cui parlava Deleuze già nel «Postscritto sulle società del controllo»), e nella costante ricerca di lavoro che lascia poveri.

Come fare per guadagnare l’attenzione? Sfuggire all’imbuto in cui tutto precipita e che impedisce di fermarsi e ascoltare. La caccia della visibilità si potrebbe spiegare, prima e oltre il narcisismo, come una richiesta disperata di riconoscimento, di uscita dalla solitudine assoluta della società neoliberista fondata sul potere di un merito senza contestualizzazione, sulla prestazione senza desiderio di inclusione per i deboli. Codeluppi segnala il problema della misurabilità: «è necessario accettare l’idea che tutto nella vita umana può essere quantificato e dunque essere misurato e valutato».

La nostra socialità si misura in click, nei «mi piace» che ci attribuiscono. Dobbiamo acquistare con fatica l’attenzione che scarseggia al mercato delle vanità. Ma non ha senso fare la morale al popolo di Facebook. Quale mancanza si surroga nella vetrina digitale? Forse l’assenza di legami solidi, di contratti stabili, di tutele sociali, di garanzie pubbliche per la salute e per la formazione. Tutto si deve comprare e vendere, la moneta sono i dati. La solitudine e il senso di isolamento o l’individualismo sfrenato sono i costi sociali.