L’ultimo segmento della vita del cineasta coreano Kim Ki-duk potrebbe essere il soggetto di uno dei suoi film. Fin dall’inizio, Kim ha portato nel cinema la sua esperienza di vita, il suo fondo proletario, marginale, irrequieto. Ha messo in scena un Paese al tempo stesso modernissimo e arcaico. E lo ha raccontato con spassionata crudezza, con realismo poetico, senza tentare di separare o di intellettualizzare i problemi, ma incarnandoli in contrasti effettivi che mettono lo spettatore davanti alla muta potenza delle immagini.
Nasce nella provincia di Kyonsung, in Corea del Sud, nel 1960.

A 17 anni abbandona l’istituto di agraria per diventare operaio. Ma a vent’anni, da perfetto Tom Jones, si arruola, per cercare fortuna, o semplicemente per andare altrove. Rimane nell’esercito cinque anni, poi prova a farsi sacerdote. L’esperienza mistica non va a buon fine, anni dopo dirà che il cinema, come era stato per Martin Scorsese, gli ha fornito una seconda occasione per predicare. Ma il giovane Kim non pensa ancora al cinema. Non sa nemmeno che esista. Nonostante la Corea abbia una lunga tradizione nazionale (i famosi studios della via Chungmuro), Kim scopre la settima arte solo a Parigi, dove si è trasferito alla fine degli anni ottanta e dove, come Gene Kelly in Un americano a Parigi, sopravvive da pittore di strada. Nelle sale escono film come Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, L’amante di Jean-Jacques Annaud e soprattutto Rosso sangue di Leos Carax, la cui influenza in Kim Ki-duk sarà evidente e duratura.
Tornato in Corea, comincia a scrivere delle sceneggiature, che ottengono subito un certo successo. È il periodo in cui il paese sta uscendo dalla dittatura militare, aprendosi lentamente ai circuiti commerciali internazionali. 

ED È SOPRATTUTTO all’estero che i suoi primi film vengono salutati con entusiasmo, anche quando destano scandalo. Nel 2004 vince l’Orso d’argento a Berlino per La samaritana e lo stesso anno il Leone d’oro a Venezia per Ferro 3 – La casa vuota che per molti è il suo capolavoro e l’apice della sua carriera. Al centro dei suoi film c’è fin dall’inizio un uso del rapporto uomo donna come manifestazione pura di tutte le altre forme di violenza, da quella sociale a quella politica o culturale. In questo Kim è erede dei maestri del cinema indipendente giapponese del dopo 1968. In lui la coscienza di far parte di una sottocultura si esprime anche attraverso il rifiuto delle convenzioni del linguaggio cinematografico; la forma, che spazia liberamente dal realismo al simbolismo, ha in lui la stessa carica istintiva e ribelle delle storie che mette in scena e che sono sempre più o meno incentrate sulla marginalità, spesso situate nel mondo della prostituzione o della criminalità. Ma che affrontano anche questioni centrali e nodi irrisolti della storia del suo Paese. Come in Indirizzo sconosciuto (2001), ambientato negli anni settanta. O Hae-anseon (The Coast Guard, 2002), dove fa emergere l’impossibilità di essere normale da parte di una società sospesa in una guerra senza fine.

IL SUO FILM più politico è senza dubbio One on One, presentato con successo alle Giornate degli autori nel 2014. È forse il film in cui la questione della distanza si pone con più chiarezza. Si tratta da un lato di un lavoro in cui viene definito con molta precisione il legame tra corruzione e violenza che è caratteristico di ogni autoritarismo fascista. Ma è difficile dire che il film non sia, a suo modo e a sua volta, un film squadrista. Sempre a Venezia, due anni dopo, spetta a lui d’inaugurare la nuova sala Giardino con un film molto interessante sulle due Coree, The Net. Ma forse il suo film più profondo è Arirang, un documentario auto-prodotto girato nel 2011 e vincitore del premio Un Certain Regard al 64esimo Festival di Cannes. Un film intenso e vertiginoso, scaturito da un incidente avvenuto durante le riprese del film Dream (2008) che ha rischiato di causare la morte dell’attrice protagonista.

NELL’ULTIMA fase della sua carriera, il circolo tra la vita e i film ha preso un giro imprevisto quando una sua attrice lo ha accusato di violenze e sevizie. In seguito altre due attrici si sono fatte avanti con accuse simili. I tribunali hanno dato ragione alle vittime, pur riconoscendo che non ci sono prove a conferma delle loro testimonianze. Kim dal canto suo si è sempre detto estraneo ai fatti. Queste accuse fanno certo male a chi ne ammirava il talento. E, anche volendo separare l’arte dall’artista, come ad alcuni pare opportuno una volta che l’artista non è più tra noi, il danno resta pure dal lato dell’arte. Perché l’arte di Kim Ki-duk era tale proprio per la sua immediatezza, nel fatto di presentarsi come un moralismo ineffabile, come un predicamento di puri esempi di vita, priva di commenti o di giudizi. Questa purezza è irrimediabilmente persa. La cronaca impone una triste didascalia ai film di Kim, là dove quei film dicevano che si può gioire liberamente delle sole immagini.