Percepirsi come cittadini europei non è semplice. Con l’eccezione, forse, di quanti, giovani soprattutto, si spostano con frequenza tra i diversi paesi dell’Unione per le più diverse ragioni. Ma anche in questo caso la percezione della cittadinanza deriva più dal facile attraversamento delle frontiere e dalla utilità pratica della moneta unica, o dall’esperienza delle crescenti affinità culturali, che non dalla consapevolezza diffusa di un insieme di diritti e prerogative, nonché di una sia pur limitata dimensione politica.

Per i più, i diritti collegati alla cittadinanza europea sfumano in uno sfondo lontano e indistinto, o appaiono materia riservata allo specialismo tecnico-giuridico. Cosicché la cittadinanza europea prende corpo in singoli «casi» e sentenze che, se anche comportano sovente importanti conseguenze di carattere generale, sono comunque ben lungi dall’entrare significativamente nella pubblica discussione o dal permeare il senso comune. Il quale, nel tempo della crisi, regredisce piuttosto verso la vecchia retorica dei «caratteri nazionali» e gli stereotipi che da sempre le si accompagnano. L’appartenenza politica all’Unione si riduce il più delle volte a un puro e semplice titolo di privilegio nei confronti degli «extracomunitari», giocato non di rado in termini discriminatori, quando non xenofobi.

E, tuttavia, malgrado questa percezione «debole», la cittadinanza europea esiste, e tocca svariate materie che riguardano la vita di tutti. Se, infatti, si lamenta e con ragione, l’assenza o l’esistenza prevalentemente spettrale dell’Europa politica, è invece certa e visibile l’esistenza di una «Europa giuridica» che, per certi versi, la sostituisce.

È appunto la storia di questa «Europa giuridica» che Costanza Margiotta ricostruisce, prendendo in esame una gran mole di materiali, a partire dall’ormai lontano Trattato di Roma (Cittadinanza europea. Istruzioni per l’uso, Laterza, pp.180, euro 13). È una storia fatta di tensioni, di avanzamenti e involuzioni, di prudenze e di forzature nella quale possono leggersi, in controluce, gran parte dei nodi che ostacolano il compimento dell’unità europea.

Prima fra tutte la tensione tra il compito di garantire saldamente il modello economico di mercato fondato sulla competitività, scolpito nei Trattati e nella stessa architettura giuridica dell’Unione, e i diritti fondamentali delle persone che pure nel Trattato di Lisbona e nella Carta di Nizza hanno ricevuto una codifica non marginale. È toccato più volte alla Corte di Giustizia europea compiere questa mediazione, giocando una partita, talvolta amichevole, talaltra aspra, con gli ordinamenti e i governi nazionali degli stati membri. Evitando comunque il più possibile ogni occasione di scontro con gli assetti costituzionali dei diversi paesi. Nondimeno il diritto comunitario, che in origine riguardava prevalentemente il diritto dei cittadini europei che si trovassero in un paese diverso da quello di appartenenza a non essere discriminati, può essere invocato anche nei confronti del proprio stato, ed anche di fronte a un giudice ordinario, qualora riguardi materia inerente al diritto dell’Unione.

In sostanza esistono, sia pure con limitazioni e ostacoli non indifferenti, strumenti giuridici sovranzionali in grado di difenderci da incongruenze e discriminazioni presenti negli ordinamenti giuridici nazionali. Naturalmente non è facile e non fa notizia. Tanto è vero che questo tipo di tensioni si incarnano perlopiù in singoli casi e relative sentenze «esemplari» che animano assai più la discussione tra gli specialisti e gli interpreti che non l’opinione pubblica.

Sappiamo, anche per più circoscritte esperienze di casa nostra, che quando la magistratura si sostituisce alla politica, la qualità della trasformazione sociale, semmai se ne potesse registrare alcuna, non è della migliore qualità, né solida, né ad alto contenuto di democrazia.

Una «Europa giuridica» chiamata a compensare o sostituire l’assenza di una «Europa politica», nonostante abbia potuto conseguire risultati non disprezzabili (come ad esempio lo sganciamento dei diritti sociali dalla posizione lavorativa), sconta esattamente questi stessi limiti. È chiaro che, in caso di conflitto, le sovranità nazionali potranno sempre appellarsi all’«invadenza» di un potere decisionale ben distante da ogni genealogia di natura democratica.

La Corte europea ne è ben consapevole e questo ne spiega le prudenze, gli arretramenti e gli stessi istinti conservatori. Che il tempo della crisi economica, laddove le ragioni della rendita e del profitto premono per la propria salvaguardia ad ogni costo, accentua fortemente.

In questo contesto, il diritto comunitario consente agli stati membri di derogare dal diritto incondizionato di soggiorno e di parità di trattamento per tutti i cittadini europei qualora questo comportasse «oneri non ragionevoli» per gli stati ospitanti. Non è difficile vedere le conseguenze di un siffatto principio in una fase in cui la competizione tra i diversi paesi dell’Unione europea (che prevale sempre più nettamente su ogni prospettiva di cooperazione e di solidarietà) si fonda sullo smantellamento dei welfare nazionali e sulla compressione dei diritti e dei livelli di vita.

L’«Europa giuridica» non è più in grado di mediare efficacemente la tensione tra la pretesa dei mercati e i diritti dei cittadini e si ritrova ostaggio di un «Europa politica» che non esiste come tale, ma esercita la sua oppressione come rapporto di forza tra sovranità nazionali in competizione sul mercato. Ed è appunto su questa impasse, sull’esaurimento di un processo di integrazione attraverso il diritto, che Costanza Margiotta conclude la sua ricostruzione storica: «Non è, quindi, più nelle sentenze che possiamo riporre le nostre speranze di lenta, ma sicura, autonomizzazione della cittadinanza europea».

Si tratterà, semmai, di raccogliere le tracce disseminate nella storia del diritto europeo in un progetto politico sovranazionale che giochi questa cittadinanza contro l’anacronismo delle Nazioni e le pretese onnicomprensive del mercato.