La memoria è il ventre dello spirito, scriveva Agostino in una celebre pagina delle sue Confessioni: gioia e dolore sono il nostro cibo, ora dolce ora amaro, ma quando vengono affidati alla memoria, passano in questa specie di ventre, vi si depositano e non hanno più sapore. Eppure quel che lo scrittore svedese Steve Sem-Sandberg attinge dal «profondo pozzo del passato» con il suo ultimo romanzo documentario I prescelti (Marsilio, traduzione di Alessandra Albertari, pp. 576, euro 20) ci arriva con un sapore intollerabile, non essendo mai stato metabolizzato da quando finì nella memoria dell’umanità tra il 1940 e il 1945.
In uno scantinato dell’ospedale viennese dello Steinhof, un giorno di marzo del 1997, vennero ritrovati centinaia di barattoli di vetro contenenti residui anatomici conservati in formalina di quasi ottocento bambini, tutti accuratamente catalogati. La scoperta avrebbe dato il via all’ultimo dei processi a carico dello psichiatra austriaco Heinrich Gross, direttore dell’ospedale infantile viennese di Spiegelgrund, un criminale nazista fino ad allora riuscito a scampare alla giustizia: era stato processato tre volte dopo la guerra, ma riuscì ogni volta a far apparire la morte di quei bambini come dovuta a cause naturali.

PARTE DEL COMPLESSO ospedaliero Am Steinhof, una perla del Liberty austriaco edificata sulla Baumgartner Höhe, che è una sorta di Montmartre viennese, prima di essere abbattuto in seguito all’entrata a Vienna dell’Armata rossa nel 1945, era stato inserito nel programma di igiene razziale e eugenetica nazista, la cosiddetta Aktion T4, dall’indirizzo di Tiergartenstrasse 4, dove era situato il quartier generale dalla Gemeinnützige Stiftung für Heil- und Anstaltspflege, l’ente pubblico preposto alla salute e all’assistenza sociale.
All’interno dello Spiegelgrund, macabro Taigeto contemporaneo, si applicava l’eutanasia a bambini disabili, orfani, ragazzini problematici e «degenerati razziali», dopo che erano stati accuratamente studiati e spesso torturati a fini sperimentali. Come Adrian Ziegler, il piccolo protagonista della fiction documentaria di Sem-Sandberg, un bambino dal «sangue zingaro» la cui esistenza era stata giudicata «indegna di essere vissuta». Lebensunwertes Leben, «vita indegna di vita», questa la denominazione codificata nel glossario della Germania nazista.
L’espressione veniva dal titolo di un trattato del 1920, Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens (Il permesso di annientare vite indegne di vita) del giurista tedesco Karl Binding (1841-1920), cattedratico in pensione dell’Università di Lipsia e dello psichiatra Alfred Hoche, dell’Università di Friburgo, uno dei maggiori oppositori della psicoanalisi freudiana, a cui Hitler si ispirò per progettare il suo programma eugenetico.
Scopo del programma, oltre che preservare e favorire la purezza della razza ariana, era naturalmente anche diminuire le spese statali di mantenimento e cura dei pazienti affetti da disabilità in un momento in cui la priorità economica era volta al riarmo dell’esercito tedesco. Un’idea, questa, che veniva da lontano: già nel 1895 lo psicologo tedesco Adolf Jost aveva pubblicato un volume dal titolo Das Recht auf den Tod (Il diritto alla morte), ove si sosteneva esplicitamente che un tale «diritto» era appannaggio dello Stato, non del singolo: era l’organismo sociale a dover esercitare il controllo sulla fine dell’individuo.

LE STIME PIÙ ATTENDIBILI parlano di almeno duecentomila persone eliminate nell’ambito della Aktion T4, che Hitler dovette però ufficialmente sospendere nel 1941 a causa delle proteste della popolazione. «Ufficialmente», perché in realtà il programma proseguì ancora. È nel 1941, infatti, che Spiegelgrund venne trasformata in un vero e proprio campo di internamento per bambini disabili, ove è documentata la morte di 789 pazienti, secondo i numeri ufficiali del Totenbuch, «il libro dei morti», anche se furono molti di più.
Il Totenbuch è una delle fonti principali del lungo (e doloroso) lavoro di ricerca d’archivio di Sem-Sandberg durato anni, e si tratta una raccolta di diari dei medici che si occupavano dei bambini di Spiegelgrund, in cui sono conservate in ordine alfabetico le anagrafiche dei piccoli pazienti con fotografie, descrizione dei difetti fisici e psicologici, diagnosi, date di arrivo nell’istituto e date di morte (in genere circa due settimane dopo il ricovero).

Vienna, 14 mar. (askanews) – Quasi tutto il personale di una,[object Object],tristemente nota clinica di Vienna, in cui i nazisti uccisero,[object Object],centinaia di bambini disabili, conservò il posto di lavoro dopo,[object Object],il 1945 e continuò per decenni a perpetrare abusi e,[object Object],maltrattamenti sui piccoli pazienti. Un rapporto delle autorità,[object Object],austriache afferma che 600-700 bambini e ragazzi furono,[object Object],ricoverati alla clinica “Pavilion 15” gestita con “un integrale,[object Object],sistema di violenza” tra la fine della Seconda guerra mondiale e,[object Object],gli anni Ottanta. Il rapporto, basato sulle interviste di ex,[object Object],pazienti e dipendenti, rileva che “un impiego e un distacco,[object Object],ideologico con il periodo nazista inadeguati contribuirono a,[object Object],queste condizioni disumane”.,[object Object],Il personale, gran parte del quale non adeguatamente qualificato, faceva uso “pesante” di droghe per sedare i bambini e li metteva in letti a gabbia e camicie di forza. Almeno 70 morirono presso la struttura, oggi chiusa, l’80% per infezioni polmonari causate dai maltrattamenti e dalla malnutrizione. “Condizioni del genere per la cura di persone disabili… erano molto lontane dagli standard professionali dell’epoca” scrive Hemma Mayrhofer, una degli autori del rapporto.,[object Object],Il sito nella capitale austriaca faceva parte della clinica Am Spiegelgrund dove i nazisti uccisero almeno 800 bambini, sottoponendoli a esperimenti pseudo-scientifici o assassinandoli con il gas. I loro resti furono usati per anni dopo la guerra per scopi di ricerca. Tra le rivelazioni scioccanti contenute nel rapporto, il fatto che dopo la guerra i cervelli dei bambini morti nella clinica furono consegnati a Heinrich Gross, un importante medico nazista che condusse alcuni degli allucinanti esperimenti. Gross (1915-2005), processato ma mai condannato, potè godere di una fiorente carriera dopo la guerra e continuare così le ricerche iniziate prima del 1945.

SPESSO LE CARTELLE cliniche venivano falsificate per far apparire le morti come inevitabili. A sostanziare la ricerca d’archivio dello scrittore vi sono però anche le testimonianze dei parenti, degli inservienti e delle infermiere (quelle che non fuggirono cambiando identità) e quelle dei sopravvissuti alla moderna strage degli innocenti.
Tra essi, lo stesso Adrian Ziegler, proveniente da una famiglia disagiata di Simmering, prima dato in affidamento, poi finito a Spiegelgrund fino al 1944, padiglione 9, un lungo corridoio dalle porte chiuse che dava su grandi stanzoni colmi di bambini, dove non si udiva volare una mosca: «Sul momento Adrian pensò che i bambini che c’erano là dentro stessero tutti trattenendo il fiato. Più tardi avrebbe pensato che erano già tutti morti fin da allora e fingevano di essere vivi soltanto per lui. Perché non si perdesse subito d’animo».
Tra le voci che eseguono le melodie più nitide nel romanzo corale di Sem-Sandberg spicca quella dell’infermiera Anna Katschenka, che nel 1948 sarà processata per le atrocità della clinica, ma sconterà solo quattro degli otto anni che le verranno inflitti per aver «accelerato la morte» di un numero di bambini non precisato.
Agli occhi dello scrittore la figura di Anna è l’emblema dell’impossibilità di distinguere nettamente tra vittima e carnefice: Anna non è nazista, viene da una famiglia socialista della classe operaia perseguitata dal regime, la madre è malata di mente, il fratello è al fronte e il padre è disoccupato. Anna diviene facile preda della manipolazione psicologica del dottor Erwin Jekelius, il quale le spiega che «curare e guarire le malattie non consiste necessariamente nel fare qualcosa sul, e nemmeno per, il malato. È il contesto in cui il malato vive che va cambiato, il modo stesso di guardare la malattia».

IN ANNA SI VERIFICA forse quella che lo psicologo americano Leon Festinger avrebbe chiamato nel decennio successivo una «dissonanza cognitiva»: l’infermiera in fondo sa che ciò che sta facendo è contrario alla sua educazione e ai suoi principi etici, pertanto maschera il suo disagio convincendosi dell’esistenza di una ragione plausibile e positiva delle proprie azioni.
Ha dichiarato lo stesso Sem-Sandberg in un’intervista recente, che tutte le infermiere della clinica consideravano se stesse le vere vittime, affermando che «sì, tutto questo è triste per i bambini, ma in fondo loro sono mentalmente disturbati, non si accorgono nemmeno di quello che sta accadendo ed è, anzi, la cosa migliore per loro. Siamo noi, invece, che ogni giorno dobbiamo affrontare questo terribile lavoro. Siamo noi a soffrire, siamo noi le vittime». E così il male non arriva, dichiara lo scrittore, direttamente da «orde di tedeschi marcianti con la mascella squadrata, ma proprio da questo complesso miscuglio di atteggiamento narcisistico, opportunismo e banale quotidianità».
I medici del regime poi non prendevano o eseguivano mai le decisioni da soli, ma sempre in gruppo: «Non puoi stare da solo a guardare negli occhi l’animale appena nato: una creatura che ovviamente non sa niente dell’infernale imperfezione che lo rende inadatto alla vita. Uccidere è una cosa che si può fare solo in gruppo, perché quando si è in tanti a farlo non si uccide più un essere vivente, ma si combatte una minaccia».
Non spetta quindi allo scrittore, dichiara Sem-Sandberg, esprimere un giudizio, perché se l’ideologia è semplice, la vita umana rimane sempre inestricabilmente complessa. E tuttavia, «se nel sepolcro abitato dallo storico puro non vi è che il ‘vuoto’», come scriveva Michel de Certeau, è compito del romanziere «riscaldare ciò che la vita ha abbandonato».