È stata tante cose, «la Mara», nata nel centro storico di Lecce nel 1932. Si chiamava Antonio Lanzalonga e, adolescente, scopriva la propria omosessualità; partiva per Roma, sognando Cinecittà e invece finiva a Genova a prostituirsi, ribattezzandosi Mara, perché un giorno aveva letto il nome dell’attrice viennese Mara Lane su un manifesto, al cinema Universale. Tornò poi in Puglia, per diventare così il travestito più famoso di Lecce.

Rifiutata tutta una vita dalla sua famiglia, muore nel 2001, nel testamento lascia gran parte del suo patrimonio – 70 appartamenti e 4 miliardi di lire – alle monache di clausura del convento di San Giovanni Evangelista. Un’immensa ricchezza accumulata a partire dagli anni in carcere, dai piccoli traffici all’acquisto di moltissime case del centro storico poi affittate a prostitute e stranieri. Abitazioni messe successivamente in vendita dalle suore, con i vecchi inquilini – soprattutto immigrati – diventati occupanti.

Mara, prostituta e affarista, capace di gesto nobile e di meschinità, respinta e desiderata, sola e scandalosa, amata e odiata. Un nodo straordinario di dicotomie. Come e «più di una sorella» per l’amica Anna, che a fatica racconta il proprio passato di prostituzione e reclusione e un presente di smarrimento nonostante l’amore arrivato in tarda età. «Era l’unica che poteva darci la casa» dice Vanda, perché Mara – aggiunge – non aveva pregiudizi ma sapeva essere anche «disumana», e «a fine mese dovevi portarle i soldi». Per Principessa, nata in un corpo maschile come Vanda, era lo «sciamano del Salento». Lola, invece, non nasconde risentimento tradendo tuttavia un affetto nato da ragazzina, e parla di sé, di quando faceva la vita, di sentimento, delle carezze date ai clienti, si emoziona ascoltando musica napoletana, ricorda l’amore.

Claudia Mollese fotografata da Alessia Rollo

Sono loro che raccontano Mara e diventano racconto di se stesse, di un tempo, di un mondo, in Amara, documentario di Claudia Mollese che sarà proiettato il 30 aprile al Torino Gay & Lesbian Film Festival, dopo la presentazione al Festival del Cinema Europeo di Lecce da poco concluso. Classe 1983, laureata in Economia internazionale a Roma e in seguito trasferitasi a Parigi, all’’EHESS (École des hautes études en sciences sociales) si avvicina all’antropologo e cineasta Jean-Paul Colleyn. Dopo l’esperienza con un collettivo artistico in una ex fabbrica trasformata in galleria, si sposta poi a Marsiglia e si unisce al gruppo di cineasti Film Flamme, che insieme all’associazione Lignes d’erre la supporterà nel montaggio e nella post-produzione di Amara, nato come progetto di scrittura proprio in Francia e premiato con il Prix de l’atelier d’écriture documentaire EHESS-CNRS Images (Centre national de la recherche scientifique).

Spiega la regista: «Sono sempre stata attratta dai luoghi e, per questo documentario, c’era una domanda in particolare che mi ponevo: come si può filmare una città, filmare quello che è invisibile? Ero tornata a Lecce dopo anni di assenza, il centro storico aveva assunto una veste diversa, turistica, nuova. Inizialmente mi interessava soprattutto un’ indagine etnografica, focalizzarmi sulla trasformazione, ma pian piano è arrivata la figura di Mara, perché in molti mi chiedevano se l’avessi conosciuta. In effetti, la sua storia era anche la storia del centro storico, erano due mondi inevitabilmente intrecciati. Avevo un ricordo molto vago di lei, l’immagine della piazzetta della Chiesa Greca, le luci molto basse, una sagoma che s’intravedeva oltre la porta.

Nel film, Mara è un paradigma indiziario, le protagoniste ci dicono di lei, ma andando avanti diventa una specie di fantasma».
E con pudore, la Mollese, ascolta, osserva i suoi personaggi, i dettagli, i gesti, quelle figure: «Vanda –prosegue la regista – mi ha detto sin da subito che non voleva che le riprendessi il volto, ’riprendi le mani’ mi diceva, ed è vero che parlavano. Anche con Lola l’inizio è stato simile: non le piaceva essere ripresa, poi ha scelto di entrare da sola nell’inquadratura, come hanno fatto anche Principessa e Anna. Si è venuta a creare una vicinanza emotiva. A parte loro, ho incontrato molte altre persone, che però non volevano partecipare al film e ho rispettato la loro scelta, ma anche alcune cose delle protagoniste ho voluto tenerle nascoste, credo per un senso di protezione. La stessa Anna, ad esempio, nei suoi silenzi racconta molto di più di quello che ascoltiamo».

E ancora, ritroviamo Mara che, in una vecchia intervista televisiva, prova a definirsi, a mettere in parole per il pubblico la sua vita. E lei, parrucca bionda e pelliccia, appare come oggetto mai identificato, il cuore di tenebra che sembra battere ancora nei vicoli di giorno e di notte, come in un tempo sospeso. «Ovviamente c’è un immaginario, che va da De André a Fassbinder fino ad Amara terra mia di Domenico Modugno, per me importante – commenta la Mollese – ma il tentativo è stato soprattutto quello di interrogarmi sul corpo della città, sui corpi. Del resto, ancora oggi, se cammini per le strade del centro storico, tanti elementi puoi non coglierli immediatamente ma ci sono, c’è ancora uno spazio del segreto, clienti che frequentano prostitute, trans, travestiti, una macchina del desiderio percepita ma non manifesta».

In Amara la regista cerca, desidera ricordi per arrivare alla memoria, la sua, quella dei personaggi, difende la loro esistenza difficile, dura, come quella di Lola che dice proprio di essere diventata «amara», quando parla di un corpo e un cuore che, negli anni, hanno perso la loro metà. E la memoria soffia anche nei ricami di pietra della Lecce barocca. «Mi sono chiesta proprio come rappresentare certe facciate storiche – aggiunge l’autrice – certi monumenti che per me andavano oltre se stessi, che in un certo senso erano pieghe».

E ha scelto infine uno sguardo altro, quello di un cineamatore, che è stato anche fotografo e proiezionista storico in città, Pasquale «Lino» Ciccarese, utilizzando passi in Super 8 di un suo documentario del 1977, Lecce barocca. E poi, in chiusura, l’oggi di una folla del Venerdì Santo: «Questa gente che porta sulle sue spalle il Cristo e la Vergine è un altro segmento ancora che mi sembrava potesse racchiudere tutto. Le zone dove Mara viveva e lavorava sono sempre state prossime a luoghi religiosi, c’è sempre stata una vicinanza fisica tra questi universi».