Comincia in modo misterioso l’ultimo libro di Davide Orecchio, Stati di grazia (il Saggiatore, pp. 309, euro 16,00) con un cambio d’identità che è una delle tante cifre di questa narrazione caleidoscopica, dove c’è un mescolarsi continuo di vita e destino, coraggio e morte, incontri, fughe improvvise e ritorni. Succede quando il maestro Paride Sanchis, che racconta la sua storia in un giornale intimo – un uomo ordinario della società rurale siciliana del dopoguerra di Enna con un matrimonio in crisi e un pessimo rapporto con sua figlia – decide di acquistare un biglietto per Buenos Aires nell’intento di far perdere definitivamente le sue tracce.

L’episodio scatenante, la molla che lo spinge a partire, e a fuggire, pare essere la morte del suo allievo Bartolo, uno dei tanti studenti costretti ad abbandonare la scuola e scegliere il gorgo della miniera, dove muore tragicamente schiacciato da una roccia. Ma non sarà lui a partire con quei documenti. Un diverso personaggio di questa complessa matrioska ne assumerà l’identità diventando di fatto «L’altro Paride», scaraventato nell’agone di una Storia feroce, quando «l’epoca s’imbestialisce»: un personaggio che conoscerà l’Argentina cupa della dittatura e della tortura, e la lotta politica, insieme ai molti «Servi nella luce del giorno, compagni nello scuro: entrano nella cricca per difendersi, protestare, stampare proteste, affiggere proteste, sabotare soprusi». Troverà l’amore di una donna, Ximena, con la quale condividere la sua parte di destino, poi vedrà strapparsela via dagli sgherri di Videla, che la imprigioneranno prima di ucciderla barbaramente, per poi raccontare anche questa parte della sua storia.

Ma anche altri saranno i «testimoni» di quel momento, esuli argentini, politici, come l’indimenticabile Diego Wilchen, medico comunista arrivato nel villaggio di Hölderlin pieno di sogni: «Io. Voglio. Modificare il mondo. Il mio intervento. Sulla realtà. I benefici che. Desidero. Portare. Donare. Al popolo. A chi soffre. A chi non ha i soldi per permettersi cure.» Ma da testimone a testimone avviene anche un passaggio di memoria (a un certo a rischio di ingorgo per la presenza di troppi personaggi e nomi) che ci porta nella Roma degli anni ’80 e si chiude nei giorni nostri a Enna nel diario di Rosaria Caccetta, nipote di Paride Sanchis, e poi ancora a sorpresa indietro nel tempo, dove tutto era cominciato. Quello che colpisce in questo libro, oltre al complesso montaggio dei materiali narrativi, la cui appendice rende merito di una bibliografia presunta, riguarda i molti registri e variazioni timbriche, una visione corale polifonica.

La lingua è molto elaborata, frutto di un lavoro, di una ricerca letteraria assai rari negli scrittori della generazione di Orecchio: sempre densa, ricca, piena di simboli, ma anche corporale, sensoriale, fatta di odori e sapori, congeniale alle vicende raccontate, ai paesaggi e agli scenari che mutano come le epoche, anche quelle ricostruite con abilità, a volte con l’aggiunta – tuttavia – di un appagato virtuosismo ridondante che dà l’idea del troppo pieno, assoli sperimentalistici che sovraccaricano il testo. Una lingua lirica che ricorda quella di un altro scrittore, Vincenzo Consolo, al quale forse Orecchio deve qualche paternità letteraria. Il ritmo è sempre molto incessante e ansiogeno, un flusso energico e prensile che agglomera, trasporta, travolge come una piena e non dà tregua. In questo libro, che segue l’opera prima Città distrutte, Orecchio complica la sua ricerca pur rimanendo fedele a un procedimento narrativo che mescola reperto storico e menzogna romanzesca, narrazione tout court e reportage di viaggio, intuizione sociologica e vicenda politico-sociale, con molti altri elementi che concorrono – in un sedimento di senso compatto e complesso, pieno di echi e riverberi interni – a creare più forti risultati espressivi e dell’immaginario di un ‘900 da dopo esplosione, ricomposto con un effetto domino in modo che «Ogni progetto, ogni destino che vuol farsi da solo. Prima o poi s’incastra.»