È già da qualche anno che in Francia si fa largo un cinema fulgido, fiammante per quanto laterale – una specie di acrocoro animato da iniziati, da dei mistici scapigliati o altrimenti imbonitori della mise en scène – che si può definire «dream-cinema» oppure, per restare alla lingua d’origine, «cinéma-rêve». Un regime di sopra-realtà, di personaggi sonnambolici, lirici, vaganti come spettri in teatri di posa, in prosceni spogli, di cartone, ingombri di chincaglie, o al contrario sgangherati, furenti, ridicoli nei loro eccessi e nelle loro pose, che avanzano, magari attraverso le strettoie di Parigi lasciate aperte nel mezzo del peso della realtà.

TUTTO sta però a capire quanta parte di tale comicità e ingenuità sia volontaria o no, cioè volontà dell’autore (che allora ne fa un elemento della sua estetica) o un’eterogenesi, un infortunio della creazione; il che equivale a fissare un primo punto d’indagine rispetto al rifiuto di questo cinema da parte di una frangia della critica per lo più avversa al postmodernismo cinematografico. In questo senso, anche nel più più esibizionista di questi film, per esempio Ultra pulp di Bertrand Mandico, prevale il ghigno dell’autore, il suo gusto beffardo, autoparodico – consapevole della natura spuria, immorale, sadica delle sue creature – piuttosto che l’accaduta, accidentale goffezza o vacuità delle pose, delle maniere dei personaggi, che se mai potrebbe essere uno dei problemi di Wes Anderson, almeno per la spiccata esteriorità del dettato, contiguo a questo dream-cinema francese. Un problema di irrigidimento, di anelasticità, estrema stilizzazione delle sagome, degli scenari e, di lì, del corpo-film, che corrisponde a un diradarsi di dialettica, a un impoverimento semantico dell’immagine quando non a un umorismo accidentale, a cui Mandico risponde con stramberia e comicità preventive (pur non rinunciando all’esperienza estatica, ebbra), cioè mostrando la disarticolazione, il dimenarsi, l’ubriachezza delle sue figure vistose: uno straripamento di materia, come un’eiaculazione di salsa cinematografica che si sparge sui corpi, ad esempio quello dell’insegnante nei Garçons sauvages (2017), e resta in superficie, sbottante da tuberi in fregola, protuberanze vegetali, lanute, acide, nella malsana boscaglia dell’isola a inversione sessuale.

 

Ma un problema che Mandico non risolve, e che probabilmente non vuole risolvere, in deliquio da atmosfere baluginanti, corpi lascivi, celluloidi che crepitano, riguarda proprio tale superficie che è la principale polarità del cinema (ma anche della letteratura) postmodernista: il tenore, l’habitat tutto esteriore delle immagini, a cui ad esempio Yann Gonzalez replica mediante un contrappunto continuo tra superficie e profondità, tra concrezione esterna, adorna di screzi – come il carapace incastonato di pietre preziose di Des Esseintes, che a pensarci bene è all’origine di questa estetica della superficie, di questa esteriorità autoreferenziale del testo – e la profondità emotiva dei suoi soggetti, spesso vero e proprio baratro che si affaccia sul nulla, sull’inesistenza di cose e caratteri. Che è appunto ciò che accade in Un couteau dans le coeur (2018), ora uscito in dvd (e in Blu Ray) in Francia, insieme all’edizione variopinta dei Garçons sauvages di Mandico, tra l’altro miglior film del 2018 secondo i «Cahiers du Cinéma». Cioè il piacere per le superfici, la patina; la gioia per i corpi, le epidermidi, per il sesso espanso, inclusivo, gli sfondi policromi e luminosi, che si rapportano però con la prospezione delle emotività più vibranti, febbrili; con la profonda, a tratti funerea tristezza dei personaggi, adesso come nei Rencontres d’après minuit (2013) alle prese con la separazione, con la perdita definitiva dell’amore.

ECCO allora che Gonzalez, pur confermando e modulando la pratica della citazione, della mistione di registri e generi (anch’egli tra comico, estasi, autoparodia e tragico), dell’autoreferenzialità del testo di superficie, rappresenta una variazione sul tema del postmoderno, proprio in virtù di tale prospezione, della penetrazione che egli attua di questo apparato esterno, rivestito di lattescenze, riverberi, di gromma iridescente, sondando e mostrando le varie striature della dimensione emotiva, come aveva fatto già nel 2012 il film che presumibilmente inaugura questa vague del sogno, cioè L’Âge atomique di Héléna Klotz, presentato quell’anno con un certo successo al Festival di Berlino.

UN FILM di emotività traboccante, quella di due ragazzi persi nella notte parigina, prima di essere risucchiati da un sottobosco posto al termine della notte, innervato, creato dalla musica di Ulysse Klotz. C’è in questo film come la volontà sofferta da parte delle immagini, di trascolorare in musica, in shoegaze, new-wave, in qualcosa come l’elettronica di John Maus (che è un punto di riferimento importante per tutti questi autori), la cui voce pare arrivare da un luogo lontano, rimbombante, come un interregno di vaga esistenza, in cui sembrano sussistere e sfumare anche i ragazzi di After school knife fight di Caroline Poggi e Jonatan Vinel, episodio di apertura del film-manifesto Ultra rêve (2018), firmato anche da Gonzalez (autore di Les îsles) e dal Mandico di Ultra pulp. Film-manifesto che in effetti constata i vari gradi del sogno, ascende dal dormiveglia di Poggi e Vinel – una dimensione appena sollevata da terra, che prende la forma di un autunno eterno, nostalgico del proprio presente e sfumante in vasta, slavata, nuvolaglia, in coltre malinconica di chitarra, voce, basso, batteria – fino al delirio in acido colante di Mandico, mentre in mezzo sta l’isola metacinematografica di Gonzalez che guarda anche al Carax di Holy Motors.

MA IL MANIFESTO è anche scritto, firmato dagli stessi registi e pubblicato con il titolo Flamme sui «Cahiers»: un inno alla notte, ai film di genere abitati da mostri, ai desideri che si incarnano nel fascio di luce della proiezione; e compendio di un’estetica che va da L’Âge atomique e arriva sino alle ultime produzioni (e coproduzioni) di Emmanuel Chaumet, comprendendo Jessica Forever, primo lungometraggio (passato a Toronto) di Poggi e Vinel (ma più freddo, meno sensibile di After school knife fight), e le Bêtes blondes di Alexia Walther e Maxime Matray.
Anche la grafica di Flamme (la disposizione del testo, i colori utilizzati, l’afflato in filigrana) ricorda quella dei manifesti delle avanguardie storiche, tanto che si potrebbe pensare a una naturale filiazione del dream-cinema rispetto al Surrealismo, se non fosse che tutte queste opere, pur nella loro diversificazione, sfuggono alla scrittura automatica optando per un racconto di raccordi, protendendosi verso una forma ultramoderna di fantastico, qualcosa come una favola spuria, scandita dalla poesia più raffinata come dallo sketch triviale o dal cartone animato.

UN SOGNO di commistioni, fluorescenze,di storie, di musiche, che a prescindere da eventuali ingenuità o lacune rappresenta una delle risposte possibili a una contingenza in cui parole e immagini, spogliate della loro ontologica disposizione a trasfigurarsi, sono usate nella loro solidità tutta letterale, nella loro prima, rozza utilità, come arma di aggressione quotidiana.
Ed è, all’interno di un dibattito culturale che fortunatamente ogni tanto propone ancora il dibattito, una delle risposte possibili, né esatta né confutativa di nulla (o di Nulla), ma quantomeno una risposta possibile, al monito filo-realistico di Ferraris, quel Manifesto del nuovo realismo uscito nel 2012 (cioè proprio negli anni in cui aveva inizio la vicenda del «cinéma-rêve») da cui poi la tenzone tra realisti e postmodernisti. Una risposta o semplicemente una proposta, un modo di intervento che non equivale a neutralizzare la realtà ma ad ampliarla, allargarla nella trasfigurazione, a materialmente crearla ogni volta: a immaginarla.