Bride, la protagonista di Prima i bambini (Frassinelli, pp. 218, euro 19,50), l’ultimo romanzo di Toni Morrison pubblicato nell’accurata traduzione di Silvia Fornasiero, vede cose che non ci sono, o non vede più cose che ci sono. Via via che sprofonda nello sconforto per essere stata abbandonata dall’uomo che ama, prima le spariscono i buchi nelle orecchie ai quali appendere gli orecchini, poi i seni rotondi di cui va fiera, infine le mestruazioni. Poco a poco torna a essere la bambina troppo nera che, al momento della nascita, aveva suscitato il disgusto della madre, orgogliosa della sua pelle più chiara. Bride si rende conto che la sua presenza sporca, «come una macchia d’inchiostro su un foglio bianco».

Anche in L’occhio più azzurro, il suo romanzo d’esordio sottile quanto l’ultimo, Toni Morrison esplorava le ragioni del profondo disprezzo per la propria razza, un disprezzo tanto diffuso tra gli afroamericani a quel tempo, servendosi della storia di una bambina nera che avrebbe voluto avere gli occhi blu cobalto; e indagava le ragioni per cui la comunità nera non sapeva formulare un concetto autentico di sé e della propria cultura. Il conflitto fra il sistema di valori originario degli afroamericani e quello della cultura bianca non si riusciva a sanare, e la percentuale di melanina nella pelle divenne per molti il metro con cui misurare sia la bellezza sia il valore umano.

Vittima delle molestie del padre e di un conformismo devastante, la protagonista di quel primo romanzo di Morrison si sarebbe avviata verso una scissione della propria identità. Ma sono almeno due gli altri libri dell’autrice afroamericana di cui si sente la presenza in quest’ultimo: Amore, in cui un padre insidia la migliore amica della figlioletta, e A casa, dove un soldato della guerra di Corea non riesce a confessare lo spaventoso pensiero che gli attraversa la mente quando, tra i rifiuti, si ritrova davanti una bambina coreana e, pieno di vergogna per la sua tentazione, le spara in faccia. In Prima i bambini Morrison inasprisce il tema al punto da rendere non soltanto entrambi i protagonisti vittime dirette o indirette di abusi sessuali subiti in età remota, ma pressoché tutti i personaggi reduci da molestie o stupri subiti da piccoli: è questa ferita, consumata nell’infanzia, ciò che costituisce la grande ossessione dell’ultimo romanzo di Toni Morrison.
Come non accadeva da tempo, tra le sue pagine l’autrice affronta in modo esplicito il tema della razza. Scegliendo di parlare pressoché esclusivamente della comunità nera e dei suoi traumi passati e presenti, e lasciando i bianchi sullo sfondo o addirittura fuori dai suoi romanzi, Toni Morrison non soltanto ha messo la questione razziale al centro del proprio mondo narrativo, ma ha fatto sì che i suoi lettori non afroamericani accettassero di affrontare tutta la fatica necessaria a entrare in un mondo tanto diverso dal loro senza la mediazione soccorrevole dell’autrice.

D’altronde, in più di un’intervista Morrison ha ricordato come nessuno le abbia reso facili le cose quando, nell’infanzia e nell’adolescenza, leggeva i romanzi dei bianchi sui bianchi. All’epoca in cui scrisse Paradiso, la sua scelta fu quella di costruire tutta la trama intorno a un grande non detto: non fornisce alcuna evidenza, infatti, alla quale aggrapparsi per sapere a che razza appartengano i personaggi, solo indicazioni oblique forniscono i dettagli necessari per dedurre se si stia parlando di un nero, un bianco, un mulatto o un nativo americano. Ora, in questo Prima i bambini, Morrison pone esplicitamente la questione, e al personaggio della madre fa dire: «Non è colpa mia se mia figlia è nera». Quanto ai vari narratori che si alternano nel racconto, tocca a loro specificare se stiano parlando di «una ragazza bianca» o di «ragazzi neri».

L’ossessione al centro del romanzo – la pedofilia – diviene manifesta grazie a dettagli precisi, quasi vedessimo un indice puntato contro il colpevole: Toni Morrison descrive la piccola Bride mentre indica una maestra d’asilo, e la donna verrà effettivamente processata e condannata a quindici anni di reclusione. Ma anche se le responsabilità dei bianchi e dei neri sono evidenti, Morrison è un’autrice troppo sapiente per non scompaginare le carte insinuando nella nostra mente il dubbio: se il dito puntato da un bambino non indicasse l’autentico colpevole? Se dopo avere trovato il coraggio di puntare finalmente il suo dito quel bambino indicasse la persona sbagliata? Quanto c’è di vero e quanto di immaginato quando si trova infine la forza d’animo per dire basta a un’ingiustizia – o al ricordo di un’ingiustizia – e per sottrarsi all’omertà degli adulti? Morrison, come sempre, mostra le durezze della vita e sospende il giudizio.
Tuttavia, in questo romanzo, il personaggio della madre impara la lezione: «Quello che fai ai bambini conta. E loro non lo dimenticano più». Anche Bride impara: «Per quanto ci sforziamo di ignorarla, la mente riconosce sempre la verità e vuole chiarezza». Poco a poco il cannocchiale verrà girato dalla parte giusta e le cose torneranno a essere viste per quello che sono. Booker, che all’inizio del romanzo lascia Bride e se ne va come sempre ha fatto nel corso della sua vita, impotente di fronte alla crudeltà più efferata, ha appreso da tempo che le ferite dell’infanzia si infettano e non si rimarginano. Ma ha anche imparato che i morti bisogna lasciarli andare.

Chi aiuta i bambini a medicare le loro lesioni? Non le madri biologiche, sembra di capire. Forse le nutrici: come Pilate in Canto di Salomone, o come le donne di Lotus in A casa, o come Queen in Prima i bambini, per restare tra i romanzi di Toni Morrison. Anche qui, come in quasi tutti i suoi libri, sono le donne a prendersi cura dei figli degli altri e a indicare la strada: se non verso la guarigione, verso il coraggio indispensabile per guardare il proprio dolore.