Deng Qian si è sottoposta a oltre una dozzina di interventi di chirurgia estetica per snellire le braccia, ingrandire il seno e cambiare quasi ogni parte del viso. «Tutto al di sopra della vita è falso», racconta al Wall Street Journal la ragazza. Come tante ventenni cinesi, anche Deng anela occhi grandi, un naso sottile, sopracciglia arcuate e un mento appuntito. Quel che ti permette di diventare una wang hong (celebrità della rete), termine composto dai due caratteri di «rete» e «rosso», colore sinonimo di popolare, «hot». Prima di finire ospite di show televisivi e programmi sulla chirurgia plastica, Deng era semplicemente una dei sei milioni di live streamer – soprattutto donne – che quotidianamente schiaffano la propria vita privata davanti allo schermo del pc. Che si tratti di un frivolo monologo in abiti succinti, una performance canora o la sponsorizzazione di un prodotto di bellezza. È un fenomeno che ha attecchito nel paese più popoloso del mondo meno di tre anni fa, ma ha già rapidamente assunto dimensioni cinesi.

Lo scorso anno, oltre la Muraglia 344 milioni di netizen hanno fruito delle piattaforme di live streaming (come Ingkee e Douyu), circa la metà dell’intera popolazione internet cinese (731 milioni). Ad aprile erano 150 i siti specializzati in questo genere di intrattenimento, per un valore di 4,3 miliardi di dollari di ricavi. Numeri destinati a triplicare entro il 2020, secondo China Renaissance. La genesi del nuovo passatempo è legata a doppio filo allo scarso appeal dei palinsesti televisivi: stanchi delle soap opera e dei programmi patriottici propinati dalla tv statale, i giovani cinesi sono sempre più protesi verso l’entertainment online, fruibile soprattutto via mobile. Dai videogiochi allo shopping virtuale sui vari siti di e-commerce; il live streaming non fa eccezione. Questo è vero soprattutto nelle città di fascia bassa, dove le opzioni di svago sono più limitate e anche intrufolarsi nella vita di un comune live streamer può risultare un diversivo attraente.

Specialmente se al semplice divertimento è possibile coniugare prospettive di facili e pingui guadagni. C’è chi «mettendoci la faccia» spera persino di riuscire a pagarsi gli studi all’estero, grazie ai «regali virtuali» che il pubblico elargisce ai propri intrattenitori preferiti. Una pratica piuttosto diffusa in Cina che ricalca quella delle «hongbao», le buste rosse (piene di cash) distribuite durante il Capodanno lunare – addirittura la Apple ha recentemente introdotto una tassa del 30% sulle «mance» elargite dagli user alle wang hong via app per tentare di bilanciare il crollo degli introiti sul mercato locale. Ma c’è anche chi fa le cose più in grade: 90mila dollari è quanto prefigura di guadagnare Deng quest’anno pubblicizzando interventi di chirurgia estetica. Fiutandone le lucrose prospettive, i grandi colossi dell’hi-tech cinese Tencent, Alibaba e Baidu hanno tutti deciso di puntare una fiche sul settore con l’intento di dare nuovo slancio al proprio core business, ripartito tra servizi di e-commerce, social networking e giochi online. Un esempio di sinergia vincente: l’introduzione da parte di Taobao (l’Ebay cinese) di una piattaforma di live streaming che permette ai venditori di promuovere in tempo reale i propri prodotti. Qualcosa di simile la stanno facendo anche Adidas, Oreo e Durex.

E poi c’è tutto l’indotto generato dalla fioritura di attività sussidiarie. È questo il caso di Three Minute TV, agenzia che non solo fornisce oltre 1000 «conduttori» professionisti a circa una trentina di piattaforme di live streaming, ma si dà anche carico di organizzare interventi di chirurgia plastica per le «anchorwoman», concede piccoli prestiti bancari per l’intervento e infine assiste le ragazze nel trovare uno sbocco nello showbiz.

Insomma, dietro al Periscope «in salsa di soia» si è creata tutta un’industria che ben si sposa con le richieste (dall’alto) di incrementare i consumi interni e sviluppare l’economia digitale. Il problema è che nella maggior parte dei casi a piazzarsi davanti alla webcam sono giovani ragazze ammiccanti in abiti discinti. Niente di più offensivo per il Partito comunista intento a ripulire il cyberspazio di contenuti disdicevoli. È per questo che, ultimamente, le autorità hanno chiuso oltre 4000 show room online e punito 18mila «conduttori». Una dozzina di piattaforme sono state aggiunte alla lista nera delle entità sanzionate per la propagazione di contenuti pornografici o discutibili, incluse Douyu e Panda TV, sito di sport live fondato niente meno che dal figlio debosciato del secondo uomo più ricco di Cina, Wang Jianlin.

Come spiegava tempo fa al Wall Street Journal Cao Xi, venture capitalist di Sequoia Capital China – uno degli investitori di Douyu – il mercato delle performance in rete deve buona parte del suo successo alla sottile linea di demarcazione tra l’innocuo entertainment e il «soft porn». Chiaramente «gli americani non hanno bisogno di Periscope per vedere giovani donne carine. Ma in un paese dove la pornografia non è permessa, invece c’è un buon mercato».

Dallo scorso anno nuove regole vietano comportamenti osceni davanti ai monitor, come mangiare una banana in maniera sexy o indossare autoreggenti e abiti discinti. Gli stessi Douyu e Ingkee hanno nel proprio organico centinaia di impiegati incaricati di scandagliare i contenuti per evitare la scure censorea. Un compito sempre meno facile da quando il presidente Xi Jinping ha assunto la guida del paese cinque anni fa. Appena alcuni giorni fa la Cyberspace Administration ha imposto a Weibo, NetEase, TenCent e Baidu la chiusura di decine di account gossippari con l’obiettivo conclamato di «promuovere i valori socialisti» sul web anziché «abbellire gli scandali sessuali privati delle celebrità e le loro spese stravaganti». Ma è il cane che si morde la coda. Infatti, è proprio il «proibizionismo» in rete ad aver abbassato il livello del dibattito online. Con politica interna e notizie sensibili a rischio bavaglio, molti internauti hanno progressivamente dirottato la propria attenzione verso tematiche più frivole. Come commenta ai microfoni del Financial Times Wen Tao, ex editor del quotidiano nazionalista Global Times «un tempo l’entertainment veniva considerato un’area speciale, sottoposta a scarsa vigilanza dal governo». A quanto pare non più.