Il prossimo 17 maggio Angelo festeggerà i dieci anni di cassa integrazione. Un record tutto italiano, che lui e i suoi colleghi della ex Montefibre di Acerra pensano di salutare con un ricevimento in grande stile, per ricordare ai loro concittadini come, di accordo in accordo, di trattativa in trattativa, di rinvio in rinvio, nella grande finzione italica si possa essere precari a tempo indeterminato e rimanere a bagnomaria, né lavoratori né disoccupati, per un tempo illimitato. Della paralisi industriale che ha colpito l’Italia negli ultimi anni loro possono essere considerati dei precursori, lungodegenti nel grande ospedale a cielo aperto in cui si è trasformata questa penisola.
Forse quel giorno stapperanno, a scoppio ritardato, le bottiglie di spumante regalate loro a Natale insieme al panettone, quasi fossero dipendenti come tutti gli altri. Un pacco che per loro ha assunto il sapore della beffa. «Ce lo hanno consegnato per strada, perché a noi cassintegrati non è consentito entrare nella fabbrica e non abbiamo un altro luogo di ritrovo», mi dicono alcuni operai che incontro on the road, lungo il corso principale della cittadina napoletana, dove un’attività commerciale su tre ha la serranda abbassata per via della recessione. Quella di una macelleria è utilizzata come tazebao per gli annunci funebri. Qui, in piena Terra dei fuochi, la crisi economica combinata allo scempio ambientale ha fatto tabula rasa allo stesso tempo dell’industria e dell’agricoltura. E il commercio non pare passarsela meglio.

Il 19 dicembre scorso una trentina di lavoratori della Ngp – la Nuova gestione polimeri, uno dei tre rami d’azienda in cui fu spacchettata la Montefibre nel 2003 – hanno bloccato i cancelli dello stabilimento: da sei mesi non veniva pagata loro la cassa integrazione, a causa delle lungaggini burocratiche tra il ministero dello Sviluppo economico e l’Inps.
Un ritardo piuttosto comune perché a ogni nuova proroga necessitano firme e depositi che inspiegabilmente portano via mesi, ma ormai sempre più difficilmente sopportabile da persone che hanno dato fondo a tutti i loro risparmi per mantenere un livello di vita dignitoso. Per fortuna, anche a seguito della protesta, le pratiche sono state accelerate e i soldi sono sbucati fuori nei primi giorni del nuovo anno. In più, gli operai devono ancora riscuotere tre mensilità del 2009. Ma l’azienda, a cui all’epoca spettava pagare l’assegno di cassa, sostiene di non avere i soldi.
Nel frattempo i cassintegrati della Montefibre vedono sempre più avvicinarsi il baratro: a novembre prossimo gli ammortizzatori sociali saranno esauriti e tutti loro rischiano di ritrovarsi senza un centesimo in tasca, fatta eccezione per quelle poche centinaia di euro al mese che molti di loro riescono a mettere insieme lavorando al nero.
C’è chi trasporta pizze a domicilio nel fine settimana, chi va a lavorare nei campi per venti euro al giorno insieme agli africani, alla mercé di caporali e sfruttatori esattamente come questi ultimi, chi ha avuto un infarto e chi è invece finito in carcere perché di questi tempi «l’unico lavoro che si trova è al soldo della camorra» e «purtroppo qualcuno di noi si è arruolato». Angelo fa il cassintegrato a tempo pieno. «Cosa faccio durante la giornata? Accompagno i figli a scuola e vado a riprenderli. Dopo dieci anni in cui mi hanno tenuto così, a non far niente, non sono più abituato a lavorare e non so fare nulla, il giorno in cui troverò un lavoro sarò costretto ad andare da uno psicoterapeuta per farmi aiutare». Quando scadranno gli ammortizzatori sociali, rischia di andare a ingrossare le fila dei cosiddetti neet (not in education, employment or training), un acronimo anglosassone che indica le persone che, per sfiducia, un lavoro neppure più lo cercano e non si formano.
Eppure i cassintegrati di Acerra hanno voglia di lavorare: «Abbiamo sempre rifiutato la logica dell’assistenza, vogliamo essere produttivi in una società moderna», dicono. Angelo ha fatto un po’ di calcoli: «In dieci anni ho perso 100 mila euro di reddito», sostiene. Più in generale, spiega, «alla comunità siamo costati finora due miliardi e 400 milioni, tra finanziamenti gettati al vento e ammortizzatori sociali».
Finora per la ristrutturazione di quest’area industriale sono stati spesi 150 milioni di euro, però la produzione non è mai ripresa. Oggi della ex Montefibre rimangono una centrale elettrica che impiega una ventina di persone e quella che gli stessi cassintegrati definiscono una «lampadina accesa»: si chiama Infra e produce fiocco dalla plastica riciclata, impiegando 35 operai. Pur nelle mani di una multinazionale, la Adler, si tratta di un primo, timido abbozzo di riconversione ecologica, l’unica possibilità di ripartire, forse, per uno stabilimento dal passato ingombrante. Ci sarà qualcuno che avrà la volontà di proseguire su questa strada?

Il nome Montefibre, qui come a Porto Marghera o a Porto Torres, provoca ancora qualche brivido. Fa tornare alla memoria morti sospette, anni di battaglie legali, denunce e processi. In questa che per tanti anni è stata, a detta di tutti, una «cattedrale nel deserto» in aperta campagna, in quella che era l’area agricola più vasta del napoletano dopo quella di Giugliano, le malattie si sono contate a centinaia: tumori ai polmoni, alla laringe, al fegato e il temibile mesotelioma pleurico. Killer tanto potenti quanto silenziosi e pronti a colpire a scoppio ritardato, rendendo incerte cause e responsabilità.
Nella fabbrica di Acerra i rischi per la salute erano legati a diversi fattori di rischio: il contatto con numerose sostanze tossiche, l’uso di amianto, fino allo smaltimento dei fusti tossici, un business nel quale saranno accertate infiltrazioni dei padroni del riciclaggio della monnezza: il clan dei Casalesi. I bidoni con gli scarti, accatastati gli uni sugli altri e semplicemente ricoperti con un tendone, sono ancora lì con il loro potenziale velenoso. Molti operai invece non ci sono più, portati via da malattie gravissime a cancellare le quali è però arrivato il colpo di spugna della magistratura. Nella relazione scientifica presentata dalla procura viene evidenziato un aumento «statisticamente significativo» di tumori alla pleura e al fegato. «L’ambiente di lavoro della Montefibre di Acerra si caratterizza, come risulta dalla documentazione agli atti, per la presenza di solventi sia alogenati che aromatici, per i quali esistono nella letteratura scientifica evidenze di azione cancerogena a livello epatico», si legge. Dei 320 casi iniziali di malattia, a processo ne sono arrivati 88, ma solo per uno è stato possibile accertare il nesso di causalità tra l’esposizione all’amianto e il mesotelioma, e per questo sono stati condannati a un anno e 8 mesi di carcere cinque ex direttori dello stabilimento e due medici aziendali, accusati di omicidio colposo.
Difficile giungere a un risultato chiaro, in quest’area in cui il cancro tra la popolazione è molto più diffuso che altrove. Già nel 2004 la rivista Lancet definì questa lingua di terra tra Acerra, Nola e Marigliano «il triangolo della morte». Secondo l’autorevole rivista scientifica gli alti livelli di diossina rilevati nell’ambiente erano da ricollegare allo smaltimento illegale di rifiuti tossici e all’attività della Montefibre. Per quanto riguarda i primi, l’attività delle ecomafie non si è mai arrestata. L’ultima discarica abusiva è stata sequestrata appena qualche giorno fa: una vera e propria «collina della morte» su un’area di 60 mila metri quadrati, in mezzo a frutteti e campi coltivati a ortaggi e a un tiro di schioppo dall’inceneritore e dalla ex Montefibre, che nascondeva 300 mila metri cubi di rifiuti di ogni genere, interrati per anni da centinaia di camion, bulldozer, ruspe. Sono stati ritrovati persino pezzi di bare e lapidi, più innocui dal punto di vista ambientale ma non meno inquietanti. La Montefibre invece, quando fu pubblicato il dossier nell’agosto 2004, aveva chiuso i battenti da due mesi e mezzo.
«Solo pochi mesi prima avevamo ricevuto una lettera di complimenti dalla Dupont per la qualità del nostro prodotto. Poi, improvvisamente e senza motivo, hanno smantellato tutto», ricorda oggi un operaio. Da allora la fabbrica non si è mai più ripresa, né è stata riconvertita e neppure l’area è stata bonificata. Anzi, proprio lì a fianco è stato costruito, tra le proteste dei cittadini, l’inceneritore incaricato di risolvere l’emergenza rifiuti partenopea: nel 2013 ha lavorato a pieno regime, bruciando 650 mila tonnellate di rifiuti.
Da dieci anni gli ex lavoratori della Montefibre vivono nel limbo della cassa integrazione, «senza poter progettare nulla». Anche il nuovo anno, presumibilmente l’ultimo se gli ammortizzatori sociali non subiranno l’ennesima proroga straordinaria, è cominciato come i precedenti: dopo la firma ministeriale della cig, gli operai dovranno attendere i consueti tempi burocratici per l’erogazione degli assegni mensili. «Se l’Inps non paga subito come faremo?», dicono. È in questo modo che un sistema sclerotizzato crea un lavoro sommerso di necessità e alimenta la catena dello sfruttamento.

I cassintegrati della Montefibre mi consegnano un pacco di fotocopie: sono verbali di tavoli di concertazione, riunioni «di verifica dell’attuazione dei contenuti del Protocollo d’Intesa sulla reindustrializzazione del sito» e accordi di proroga della cig siglati dal 2004 a oggi. In tutti si sprecano parole come «riconversione» o «reindustrializzazione», le istituzioni si impegnano «all’attuazione del progetto che viene considerato prioritario nella valutazione delle prospettive di ripresa dell’area» e le società interessate promettono investimenti mentre chiedono al governo ulteriori stati di crisi. Di verbale in verbale sono trascorsi dieci anni e siamo ancora al punto di partenza: la ex Montefibre è tenuta in vita con il respiratore artificiale, ma è ferma, improduttiva.
Ancora il 7 novembre scorso il ministero dello Sviluppo economico richiamava «la necessità che l’impianto di Acerra inizi finalmente a produrre poiché oggi ne esistono le condizioni concrete». Invece, pare proprio che non accadrà. La ripresa delle attività, preventivata nel prossimo febbraio anche se non ci credeva nessuno, slitterà ancora una volta perché la società spagnola Seda, che ha acquistato gli impianti, versa in cattive acque e pensa a smantellare piuttosto che a produrre polimeri, men che meno a riconvertire la produzione in senso ecologico. Troppo forte la concorrenza dei mercati orientali, dove il lavoro costa meno e le norme ambientali sono meno stringenti, nonostante il laissez faire che ha regnato per anni incontrastato nella Terra dei fuochi. Gli ultimi boatos parlano del possibile arrivo degli indonesiani di Indorama, che avrebbero presentato una manifestazione d’interesse al ministero per lo Sviluppo economico. Come all’Inter, si vagheggiano i miliardi di un magnate dall’Estremo Oriente per risollevare le sorti della fabbrica. Con chi brinderanno per i dieci anni di cassa integrazione, il prossimo 17 maggio, gli operai di Acerra quando stapperanno lo spumante di Natale?