Nel corso della Seconda Guerra Mondiale venne registrato, dall’aviazione statunitense, un numero elevato di incidenti aerei in nessun modo ricollegabili alla presenza di problemi tecnici. Era durante le operazioni conclusive del volo che numerosi bombardieri si schiantavano al suolo, per una comune propensione dei piloti a ritrarre il carrello del velivolo proprio nel corso della fase di atterraggio. Fu per trovare un rimedio a questo insolito problema che venne convocato lo psicologo Alphonse Chapanis, nella speranza di riuscire a comprendere il processo psichico che induceva in errore un numero così elevato di aviatori.

ncuriosito dal fatto che questo tipo di incidenti si verificasse con un preciso modello di bombardieri (i B-17), Chapanis decise di affrancarsi dai suoi stessi schemi mentali e di rivolgere la propria attenzione alle cabine di pilotaggio, più che alle menti di coloro che dovevano prendervi posto. Ben presto, lo psicologo statunitense si rese conto che la leva adoperata per mettere in funzione il carrello e quella utilizzata per azionare gli ipersostentatori del velivolo si trovavano l’una di fianco all’altra e che i due comandi apparivano identici. L’analisi di Chapanis era riuscita e dimostrare che se a causare gli incidenti era la disattenzione dei piloti, a facilitare considerevolmente la possibilità di commettere errori era la strutturazione della cabina di pilotaggio.

Quando ci si confronta con l’inefficacia di alcune strategie atte a contrastare la povertà si tende a concentrare tutta l’attenzione sull’atteggiamento assunto da quanti dovrebbero usufruirne, più che sulla natura degli strumenti ideati. Se una agevolazione finanziaria non viene sfruttata da chi ne ha bisogno, deve essere perché quell’individuo è troppo pigro per svolgere le pratiche necessarie o, diversamente, perché non è in grado di comprenderne il potenziale e di vederne il beneficio. Seguire l’esempio di Chapanis, cambiando radicalmente la prospettiva su questo argomento, è quello che decidono di fare Sendhil Mullainathan ed Eldar Shafir con Scarcity. Perché avere poco significa tanto (il Saggiatore, pp. 292, euro 22). Indagando i fattori che determinano le inefficienze strutturali dei programmi antipovertà, i due studiosi (docenti di economia ad Harvard, il primo, e di psicologia e affari pubblici a Princeton, il secondo) sono riusciti a scoprire un universo, fino a oggi, inimmaginato.

La teoria che viene elaborata nel libro rivoluziona gli studi sul settore, espandendo i confini della propria analisi ben al di là del problema specifico. Secondo Mullainathan e Shafir la povertà, pur non risolvendosi in essa, può essere ricondotta all’esperienza della scarsità, ovvero alla condizione di disporre di un determinato bene in una quantità minore di quella che si ritiene necessaria. In una prospettiva di questo genere a quelle condizioni che determinano la povertà, devono essere aggiunte tutte le considerazioni elaborate dal singolo individuo, riguardo a quanto è necessario possedere e a quel che davvero conta. È questa componente soggettiva, specialmente nei meccanismi psicologici che a essa sono correlati, a interessare i due studiosi. Così, l’analisi che si sviluppa alla luce della teoria sulla scarsità dimostra una sostanziale somiglianza comportamentale tra chi non possiede denaro a sufficienza, chi lotta contro la mancanza di tempo, chi vive nella solitudine e chi decide di intraprendere una dieta dimagrante. In tutti questi casi (e in molti altri ancora), la preoccupazione per la condizione di scarsità imprigiona la mente dell’individuo, che si trova pertanto a operare avendo a disposizione meno intelligenza fluida e un minore controllo esecutivo. «Quando sperimentiamo qualsiasi forma di scarsità, ne veniamo assorbiti. La mente si orienta automaticamente, con forza, verso i bisogni insoddisfatti. (…). La scarsità è qualcosa in più dell’insoddisfazione di avere pochissimo. Modifica il nostro modo di pensare. Si impone nelle nostre menti», inficiando la nostra vita nella sua totalità.

Certo viene da domandarsi se sia realmente lecito paragonare condizioni esistenziali così differenti e così diversamente invasive nelle esistenze della persone. Ancora, bisognerebbe comprendere se i poveri dell’India rurale siano effettivamente comparabili ai clienti a basso reddito di un centro commerciale del New Jersey. La risposta è senza dubbio negativa e i due autori del volume ne sono consapevoli. Tuttavia, pur senza voler escludere le circostanze specifiche e la loro indubbia rilevanza, il punto di forza di questa teoria risiede proprio nella sua capacità di riuscire a trovare una chiave di lettura unitaria, adatta a decifrare le condizioni nelle quali si trova a operare qualsiasi persona viva la scarsità. Una nuova chiave di lettura, in grado di dimostrare che i programmi di welfare e le politiche di sviluppo globale potrebbero diventare più efficaci, se si fosse disposti a seguire, ancora una volta, l’esempio di Alphonse Chapanis.