La prima immagine, una luna su cui si disegna in sovrimpressione l’ecografia di un feto, avverte subito che siamo di fronte alla vita, alla morte, ai misteri della condizione umana. La fede, perciò, e la presenza/assenza di Dio, l’essere al mondo e «dentro» il mondo, la natura, il dolore che rimane senza risposte, non quelle desiderate almeno nell’altalena di incognite che appare ogni singola vita. Giorgio Diritti non ha mai fatto mistero di una certa presunzione nelle sue immagini, che poi non è nemmeno tale mischiata all’idea un po’ maldestra di chi tutto vuole spiegare e mettere in fila Olmiano di scuola, al maestro guarda in questo suo terzo lungometraggio con più evidenza, difatti nel personaggio che abbandona una condizione agiata cercando tra gli umili il senso dell’essere umano potremmo vedere il Raz Degan di Centochiodi, – senza arrivare a citare Roberto Rossellini di Europa 51, pure se con Ingrid Bergman la protagonista di Diritti condivide assai di più trattandosi della perdita di un figlio. Ma la lucida compassione di Olmi, che nella sua semplicità formale traduce il sentimento della propria ricerca, non appartiene a questo film la cui frammentazione narrativa appare più come espediente che come reale necessità poetica.

Augusta (Jasmine Trinca, sempre più bella) è una giovane donna in fuga da traumi feroci, la perdita dell’amatissimo padre, e del figlio che aspettava, il fallimento del matrimonio col marito che l’ha lasciata perché non potrà più avere figli. E se stessa, soprattutto, che non riesce più a riconoscere nelle strade della ricca provincia borghese a cui è appartenuta fino a allora, nel rapporto irrisolto con la madre o con la ruvida nonna. Per questo si è imbarcata sulla nave di suor Franca (Pia Engleberth), una vecchia amica della madre che attraversa da anni il Rio delle Amazzoni catecchizzando con sicurezza gli indios, in linea con quella cultura missionaria in cui il bene e l’attitudine coloniale sono difficili da separare, e il rapporto con la diversità si basa sulla sua conformazione al dogma.

Augusta non capisce Franca, e dal silenzio del suo essere in disparte non riesce a sentire Dio, la fede lei non ce l’ha, o forse l’ha perduta, le sono rimasti interrogativi duri, pesanti, che la fanno decidere di cercare da sola. La suora le appare poco all’ascolto dell’altro e la chiesa un ambiguo territorio di incontro tra interessi non sempre così spirituali, in cui lo spirito anzi è assoggettato al denaro. Lascia così la barca e si immerge nella miseria rifugiandosi in una favela di Manau. Lì, nel rapporto con donne e uomini all’opposto di lei, che la chiamano principessa, sembra trovare un senso al suo esistere. Senza rendersi conto però che sta rompendo equilibri fragili e che, un po’ come suor Franca, la sua idea di «fare bene» non è necessariamente in corrispondenza con le richieste dell’esterno.

Quante cose, ma ci possiamo stare perché il sentimento del contemporaneo è confuso, disgregato, impossibile da racchiudere in un pensiero lineare, in una idea unica di spiritualità che qui infatti prende più forme: le suore chiuse nell’eremo, la giovane india arrivata in Italia che ringrazia di fronte alla morte mani e sesso e occhi, anima e corpo inscindibili dunque. Augusta che finisce sull’isola deserta e l’eremo se lo fa nella solitudine come una Simone Weil dell’Amazzonia. Pure se poi questa dimensione spirituale esibita finisce con l’apparirci più un intento programmatico come quello di una wilderness estranea all’emozione.
L’altrove è forse uno dei luoghi più ricorrenti nell’immaginario occidentale, può avere forme diverse, e probabilmente anche chi si denuda di sé o sceglie di lavorare nelle cosiddette realtà difficili ha come punto di partenza un bisogno privatissimo a cui rispondere. Lo scarto sta nel trasformarlo in un progetto, in una dimensione «politica» che non significa ideologica, ma è là dove si produce il senso dello scambio tra una persona e la nuova realtà. Questo aspetto però non sembra interessare Diritti che rimane con la sua protagonista arroccato al punto di vista unico a cominciare dalla materia del suo fare: il cinema.

Cosa è dunque Un giorno devi andare? La fuga colpevole dell’occidente da qualche parte che sia un luogo dell’umano o la natura senza la consapevolezza dei proprio conflitti diluiti appunto nel senso di colpa. Di cui sono pieni i suoi personaggi, la protagonista, Augusta, «colpevole» di non essere madre, di essere sterile, e con lei le altre donne compresa la ragazzina della favela, in una presunta linea matrilineare del film che vorrebbe esaltarle e invece le condanna senza appello.
Mentre Augusta saltella forse felice trascinando i bimbi della favela al suono dei piatti paterni, come il pifferaio magico, riscopre il significato di «comunità» perduto nel nostro occidente. Già, ma quale?

Di nuovo quella che accoglie e ci asseconda noi spettatori (e pure occidentali) nelle nostre ben salde convinzioni. Non c’è la contraddizione insita nell’idea stessa di «comunità», come ce la mostrava con pudore Alice Rohrwacher nel suo Corpo celeste, film citato in paragone a questo, e soprattutto non c’è contraddizione nelle immagini di Diritti sia verso l’umano che verso formiche, sabbia, alberi, la natura insomma in cui Augusta sotto l’occhio protettivo degli indios consuma il suo ultimo (?) passo di redenzione..  Filmare la miseria: si è posto questo interrogativo il regista girando nella sua favela epurata che quasi diventa un resort per ricchi in crisi? Sfiorando la pornografia dello sguardo nell’insistenza formattata tra baracche e sporcizia che scorre nell’acqua scura …
E se dio – o la trascedenza si manifestano nel sorriso di un bimbo poverissimo sul filo dell’azzurro del cielo, allora la rivelazione di Un giorno devi andare somiglia più a «tutti i colori del mondo». Trepidazione e dolore di un mistero sono un’altra cosa.