Il primo amore di Vitale Bloch è stato Der Kunstkenner (Il conoscitore d’arte) di Max J. Friedländer: una specie di bibbia scritta in una lingua per iniziati. Parla di pratica e metodologia della connoisseurship con un tono apparentemente semplice, superando le vecchie teorie morelliane e quelle del suo celebre allievo Bernard Berenson. Il libro proiettava la silhouette del connoisseur che Bloch avrebbe voluto incarnare in avvenire. Perciò decise di tradurlo nella lingua materna (il russo), ventitreenne, nell’anno del trasferimento a Berlino da Bialystock, dove era nato nel 1900.
La stagione berlinese è quella meno documentata della sua carriera ma non è un mistero che Bloch vivesse di commercio d’arte, mestiere che avrebbe continuato a esercitare per il resto della vita. In pochi anni mise a segno una serie di operazioni commerciali che gli avrebbero garantito un’esistenza agiata. Dopo Berlino sarebbe vissuto a L’Aia e a Parigi, dove morì settantacinquenne. In entrambe queste città disponeva di una casa (la seconda condivisa col fratello), arredata con dipinti e disegni antichi e moderni. Alla sua scomparsa li lasciò in dono al Boymans-van Beuningen Museum di Rotterdam. Non una raccolta qualsiasi, tutt’altro: lo specchio di un fiuto e di un gusto eccezionali, riflesso nei nomi di Beccafumi, Guercino, Sweerts, Grechetto, Corot, Degas, Bonnard, Vuillard, fino a Giorgio Morandi. Alcuni sono autori che hanno poco in comune, almeno in apparenza. In realtà sfogliando il catalogo della raccolta ci si accorge che le opere si fondono perfettamente all’insegna di quello che, all’epoca, era chiamato l’infallibile «gusto Bloch». Per completare le sue passioni figurative mancano all’appello i nomi di Johann Liss, dei fratelli Le Nain, di Georges de la Tour, di Vermeer e di Rembrandt, autori sui quali avrebbe scritto contributi originali.
Bloch era uno storico dell’arte piuttosto anomalo, atipico, inclassificabile. Dovendo fare un bilancio della sua produzione critica bisognerebbe intrecciarla con quella legata all’attività di art dealer che l’ha visto coinvolto in scoperte e vendite ai principali musei del mondo. Tra poco ci soffermeremo su uno dei suoi ritrovamenti più straordinari, non prima di aver accennato al fatto che il legame con Friedländer si sarebbe rinsaldato proprio grazie a un acquisto messo a segno da quest’ultimo per conto della Gemäldegalerie di Berlino nel 1931: un’opera eccentrica di Pieter Bruegel il vecchio (due scimmie incatenate in una nicchia voltata aperta sulla vista del porto di Anversa), rintracciata da Bloch.
Solo un paio di anni dopo il nostro personaggio era già sulle tracce di un altro capolavoro, questa volta privo di firma e data (diversamente dal fortunato caso di Bruegel), ma infinitamente più importante nel panorama della pittura europea. Presso villa Garzoni a Ponte Casale (nei pressi di Padova), all’epoca di proprietà Donà dalle Rose, era venuto alla luce un formidabile paesaggio «puro». Lo stato di conservazione non aiutava in nessun modo la comprensione delle sue qualità stilistiche. Buchi, rattoppi e scrostature del colore, avrebbero portato fuori strada chiunque. Perciò dobbiamo giudicare con particolare indulgenza il parere espresso da Giulio Lorenzetti (all’epoca direttore del Museo Correr a Venezia) e poi quello della commissione che ne ha decretato l’esportazione, costituito da figure di prima grandezza del tempo: Gino Fogolari, Ettore Modigliani e Carlo Gamba. Quest’ultimo, a distanza di molti anni, avrebbe ricordato che la delicata decisione venne presa solo dopo un confronto diretto con la Tempesta di Giorgione, di fronte alla quale il nostro paesaggio «appariva opaco e senza prospettiva cromatica, quale opera d’imitazione o di copia».
A questo punto Bloch si è affidato a Roberto Longhi che, oltre ad attribuirlo direttamente a Giorgione, l’avrebbe battezzato col nome con cui lo chiamiamo ancora oggi: Il Tramonto (The Sunset). Siamo nel 1934 (all’altezza dell’Officina Ferrarese) e i due decisero di far sovrintendere il restauro a Mauro Pellicioli. L’esecutore materiale sarà però Theodor Dumler, che sfrutterà un’area particolarmente compromessa della tela (un buco rappezzato) per fornire una chiave di lettura al quadro. Fino ad allora era infatti ancora piuttosto oscuro il soggetto. Grazie a questo intervento falsificatorio si poteva almeno contare sulla presenza del San Giorgio e il drago che Dumler aveva inventato di sana pianta. Le manipolazioni del restauratore hanno riguardato anche l’aggiunta dell’eremita che si intravede all’interno di un anfratto roccioso, all’estremità destra della tela, identificato in Sant’Antonio abate.
La prima fotografia del dipinto è stata pubblicata sempre da Longhi nel Viatico del 1946. Assieme ai Tre Filosofi di Vienna egli considerava Il Tramonto l’espressione «del classicismo cromatico che spiegherà poco dopo Tiziano». Sulla base della stessa immagine anche Berenson aveva dichiarato – in una lettera indirizzata nel 1953 a Cecil Gould della National Gallery di Londra – che il dipinto era «the most convincing of all attributions to Giorgione».
La prima apparizione pubblica del dipinto risale al 1955, quando è esposto alla mostra veneziana di Giorgione e i giorgioneschi. In quella sede i principali studiosi italiani di arte veneta si erano convinti dell’attribuzione al maestro di Castelfranco Veneto (Luigi Coletti, Vittorio Moschini, Antonio Morassi, Rodolfo Pallucchini, Lionello Venturi, Pietro Zampetti). Bloch ci era arrivato, chissà se da solo (qualcuno ha scritto che il dipinto era stato acquistato in società con Longhi), vent’anni prima. A questo punto era iniziata una lunga trattativa con la National Gallery di Londra, felicemente conclusa con l’acquisto nel 1961. D’ora in avanti i dubbi sul nome di Giorgione si sarebbero ridotti a voci isolate, marginali e sporadiche. Negli studi successivi è stato ipotizzato che l’opera fosse appartenuta al celebre conoscitore veneziano Marcantonio Michiel (1484-1552). Dal 1594 (e fino agli inizi del XX secolo) la villa Garzoni era infatti abitata dagli eredi Michiel e in un inventario della collezione di Marcantonio (successivo al 1552) risulta registrato «Un quadro in un paese con doi figurini cornisado d’oro schietto».
Non saprei dire se Bloch ammirasse maggiormente Longhi o Friedländer. Era amico sodale di entrambi e tutti e due erano le stelle fisse del suo firmamento. Nel necrologio del primo si era sentito in dovere di sottolineare l’importanza delle Proposte per una critica d’arte, confrontandole, guarda caso, al Conoscitore d’arte di Friedländer, definito un testo «folgorante». Di quest’ultimo ammirava la precisione chirurgica, fredda e oggettiva, ma anche la calorosa partecipazione ai fatti moderni: «E per i raffinati, diciamo pure, per gli snob avvezzi a sorridere di una Madonna di Gerard David o di Quentin Matsys come di una cosa superata, aggiungiamo che fin dal 1888 Friedländer aveva riconosciuto la vitalità della nuova pittura francese». Con queste parole Bloch introduceva la traduzione italiana del Conoscitore d’arte, pubblicata per i tipi Einaudi nel 1955. Come a dire: l’unica possibilità di stare al passo con l’arte antica è conoscere l’arte contemporanea, e viceversa. Un assunto su cui i suoi maestri d’elezione si sarebbero sicuramente trovati d’accordo. Certo con Il Tramonto di Giorgione aveva funzionato.