Se non fosse stato un critico a insistere, un critico rispettato e illustre per di più, chissà se Charlotte Brontë lo avrebbe mai letto Orgoglio e pregiudizio. Certo è che il romanzo non le piacque. Correndo il rischio di irritarlo, gli doveva pur sempre un articolo entusiasta su Jane Eyre, al critico scrisse anzi che non riusciva a capire perché ammirasse tanto Jane Austen. Lei in quel libro non ci aveva trovato proprio niente. Solo un «giardino coltivato e cintato con ogni cura, con aiuole precise e fiori delicati». Non «uno scorcio di campagna aperta», né «una collina azzurra», tantomeno «un bel torrente». Mancava l’«aria fresca» nel romanzo di Miss Austen. Per quanto il suo parere potesse risultare affrettato, aggiungeva l’autrice di Jane Eyre, mai avrebbe voluto vivere con le «signore» e i «gentiluomini» di Orgoglio e pregiudizio. Per nessuna ragione al mondo le sarebbe piaciuto abitare insieme a loro «in quelle case eleganti, ma isolate». Lei, immaginiamo noi, preferiva mille volte la sua brughiera e i suoi selvatici parchi in abbandono, i suoi rustici cottage, le sue mansion disadorne.
Non la pensa così Lucy Worsley, che proprio esplorandone le case costruisce una biografia di Jane Austen uscita lo scorso anno in Inghilterra e ora tradotta in italiano da Maddalena Togliani per Neri Pozza con il molto eloquente titolo A casa di Jane Austen («I Narratori delle Tavole», pp. 477, € 19, 00), più lineare benché meno evocativo dell’originale Jane Austen at Home. L’interesse per le case si direbbe del resto un asse portante nella pur folta attività della poliedrica Lucy Worsley. Laureata in storia all’università del Sussex, conduttrice per la BBC di trasmissioni divulgative che spaziano dalla vita delle mogli di Enrico VIII alle gesta delle suffragette, Worsley è curatrice capo di Historic Royal Palaces, una charity indipendente che gestisce sei residenze reali non più abitate, tra cui Hampton Court, la Torre di Londra e Kensington Palace. Il suo libro più noto, ma ha scritto anche guide e storie per bambini, rimane finora If Walls Could Talk: An Intimate History of the Home (2012), chiaramente dedicato all’abitare e frutto di un omonimo programma in più puntate.
Molto visivo, quasi tattile in certe pagine benché non sempre di televisiva scioltezza, appare questo corposo e folto A casa di Jane Austen, prima opera di Lucy Worsley pubblicata nella nostra lingua, forse perché ormai non scarseggiano nemmeno qui i Janeites di kiplinghiana memoria. Dalla severa canonica di Steventon in cui nacque durante una gelida notte del dicembre 1775 – già demolita nell’Ottocento malgrado il campo su cui pascolano le mucche sia tuttora meta di commossi pellegrinaggi – all’accogliente cottage di Chawton in cui compose o riscrisse tutti i suoi sei romanzi completati – oggi un vero luogo di culto più che un museo – al soffocante appartamento di College Street a Winchester, dove morì non ancora quarantaduenne all’alba di un giorno di luglio e dove ne ricorda la presenza una molto anglosassone placca grigia: la vita della più celebre e amata scrittrice d’Inghilterra si snoda di soglia in soglia attraverso le pagine di A casa di Jane Austen, sotto lo sguardo di un lettore che Worsley tiene letteralmente per mano mentre si avventura con lui lungo strade di città e sentieri di campagna, apre porte, attraversa stanze, spalanca finestre sull’orizzonte del tempo.
Malgrado i non pochi scalini e qualche pietra sconnessa, l’assito a tratti scricchiolante, quello su cui Lucy Worsley ci invita a seguirla è un percorso che funziona. Convince la bussola orientata sul legame che unisce le case realmente abitate da Jane Austen a quelle disegnate nei romanzi; sul desiderio di trovare una casa per sé, che è anche aspirazione a una dimora per la mente, condiviso da Austen con le sue protagoniste; sull’importanza dello sfondo domestico per una narratrice che fu sempre costretta a lavorare usando uno scrittoio portatile in una stanza di passaggio. Opere narrative, carteggi, testimonianze coeve, ricordi famigliari: Worsley setaccia i documenti a sua disposizione, passati ormai al vaglio di infinite letture tanto è stato scritto su Jane Austen, per illuminare aspetti della vita quotidiana non soltanto frivoli come i flirt o i balli, ma infinitamente seri come il denaro perduto e guadagnato. Ogni spiraglio socchiuso, ogni bagliore di lucerna appare prezioso davanti a una scrittrice la cui vita intima resiste al tempo intangibile e segreta.
Diventa più difficile per il lettore (affaticato da una traduzione a tratti disattenta che lo spinge per esempio «in una biblioteca consacrata alle scrittrici di sesso femminile») seguire Lucy Worsley lungo l’itinerario meno superficiale, ma niente affatto secondario proposto dal suo libro. Per quanto fosse consapevole del proprio valore di scrittrice e potesse senz’altro avere scelto di rinunciare al matrimonio e ai figli per la scrittura, risulta perlomeno avventata la trasformazione di Auntie Jane in una battagliera femminista e quella dei suoi romanzi in testi sacri per la storia dell’emancipazione delle donne. Worsley asseconda questa tesi arrivando perfino a rimbrottare Charlotte Brontë in una sorta di bizzarro battibecco oltremondano: «non avresti potuto scrivere Jane Eyre se Jane Austen non avesse costruito, prima, qualcosa che ti spingesse a demolirlo». È un tu che difficilmente noi Brontëites potremo perdonarle.