Cinquecento chilometri quadrati di pianura, bianco su verde, come brina sulle foglie, come sudore sulle fronti. La piana del Sele, tra Eboli e Capaccio, è una distesa quasi onirica, in cui il color erba delle coltivazioni a stento s’intravede nel mare dei 5000 ettari di serre che luccicano al sole. Uno spazio ripetitivo da annullare il tempo, attraversato come un rivolo da sporadiche biciclette e persone, è il caso di dire che il numero non fa la forza. Gli immigrati abitano questi campi, li vivono, li lavorano, li portano sulla pelle, sui capelli, nei polmoni.

Dove l’uomo pecca, la natura è generosa. Questa agricoltura ricca e intensiva, per il 70% di serra, fornisce tutti gli anni grandi aziende e multinazionali esportando in Italia e all’estero, dal settore olivicolo, al vitivinicolo, al lattiero caseario, all’allevamento, dall’orticoltura alla fragolicoltura, con 3 mila ettari di serre dedicate esclusivamente alla produzione di insalate pronte per il consumo.

La chiamano «la California d’Italia». Quattordicimila braccianti italiani e stranieri provenienti perlopiù da Marocco, Algeria, e paesi dell’Est passano anche dodici ore su questa terra, maneggiando fitofarmaci senza protezioni, fatta eccezione per un paio di scarpe e una mascherina che si portano da casa. Quelle che chiamano case sono costruzioni condonate in cui vivono in gruppi, così vicine alla città, ma così fuori da ogni epoca, indietro di quasi cinquanta anni.

Questa è la sensazione che si prova a stare qui. Se ne vuoi parlare che lo facciano anche le tue ferite. Ma come si fa quando le ferite non ci sono sui libri di medicina? «Esiste una medicina contro la stanchezza?». Questo si sono sentite chiedere nei loro viaggi Giulia Anita Bari e Serena Fondelli, rispettivamente coordinatrice e medico di Medu, onlus nata a Roma nel 2004 dall’idea di un gruppo di medici e volontari che gira l’Italia per promuovere e tutelare la salute e le condizioni lavorative dei migranti impiegati nel settore agricolo.

Hanno passato maggio e giugno nella Piana del Sele, poco lontana da Salerno con il loro camper itinerante che aspettava gli immigrati per assisterli dal punto di vista medico e non solo, operando all’interno della sede Flai Cgil di Santa Cecilia (Eboli) e lungo la litoranea Salerno Paestum, in punti strategici tra le 4 mila imprese agricole disseminate sul territorio. Hanno deciso di far parlare per loro i dati che freddamente dipingono quello che capita qui. Secondo il rapporto di Medu la maggior parte del made in Italy agroalimentare arriva da procedimenti basati sull’illegalità, nonostante tre migranti su quattro siano regolarmente soggiornanti e il 61% sia in possesso di un contratto di lavoro, persistono sistemi di sfruttamento come sottosalario e capolarato.

Basti pensare che l’80% degli intervistati guadagna per un’intera giornata di lavoro 30 euro. Irregolarità contributive, vendita di falsi contratti di lavoro, pagati anche 6 mila euro, condizioni di emarginazione sociale con difficoltà anche all’accesso alle cure, è la prassi. Solo la metà degli intervistati in possesso di un permesso di soggiorno è iscritta, infatti, al Servizio sanitario Nazionale.

Le coordinatrici di Medu, che opera all’interno del progetto «Terragiusta», hanno intervistato 177 migranti, prestando assistenza medica e servizio sanitario a 133 di loro. L’87% delle persone incontrate sono impiegate in agricoltura, l’85% è composto da uomini con un’età che varia dai 35/36 anni dei quali il 75% dichiara di avere un regolare contratto di lavoro, tra questi il 64% afferma di vedersi riconosciute un numero di giornate inferiori rispetto a quelle svolte effettivamente e il 12% ha ammesso il ricorso all’intermediazione di un caporale.

Diverso il discorso per gli irregolari, il 69% ha detto di ricevere 30 euro al giorno (e non i 48 euro previsti dai contratti collettivi), il 43% ha confessato il ricorso a un caporale e un terzo ha dichiarato di dover pagare per poter raggiungere il posto di lavoro a un caporale o ad un autista o ad un conoscente.

Uno sfruttamento che ricorda tristemente quello dei braccianti agricoli italiani di un tempo, su questa terra ricca di risorse ma povera di legalità. Eppure c’è chi si sente fortunato, come Tahar Benkadir. Forse in fondo lo è davvero se fortunato vuol dire arrivare nella Piana del Sele sedici anni fa, a venti anni, da Agadir in Marocco con un visto turistico. Riuscire a regolarizzare la sua situazione con la sanatoria del 2002, quando quasi tutti gli immigrati comprarono per 1500 – 2 mila euro dai propri datori di lavoro un contratto per avere il permesso di soggiorno.

Guadagnare 25/30 euro al giorno per sette ore e mezza di lavoro che vanno dalle 5.30 del mattino alle 12.30, guidando un trattore in un’azienda agricola. Fortunato perché ha un contratto di lavoro che gli riconosce cinquanta giornate lavorative l’anno, quando in realtà sono 200/ 250. Fortunato perché sotto le serre ha conosciuto Irina con cui ha avuto una figlia due anni fa. Perché lui non desidera andare via o scappare in Francia o in Germania come i suoi amici, ma vuole che cambi qualcosa qui.

Fortunato perché si sente fortunato, diversamente dai tanti ragazzi che ha conosciuto che hanno pagato 2 mila/3 mila euro per arrivare dove si trova lui, perché in patria «li facevano sognare con il lavoro perfetto e la casa che ti aspetta e ora dormono in pineta». Perché ha conosciuto gente che viene da paesi lontani come la Siria e la Palestina che ha dovuto sborsare anche 4 mila dollari per scappare alla morte e alla guerra, li ha visti sbarcare e ha parlato con loro, è stato il loro mediatore culturale e ha avuto voglia di piangere. Eppure vorrei tanto avere il coraggio di dirgli che non è fortunato.