È il 7 novembre del 1974 quando Sandra Rivett viene ritrovata priva di vita nel seminterrato di una casa in Lower Belgrave Street a Londra. Ventinove anni, lavorava come tata dei figli di Veronica Duncan e Lord Lucan. È quest’ultimo che, scambiando Rivett per la propria ex moglie da cui era ossessionato, la uccide. L’episodio scuote l’Inghilterra degli anni Settanta, i giornali se ne occupano, solleticati dalla «straordinaria fuga dalla giustizia» di quel rampante e vizioso aristocratico, avvezzo alla bella vita e al gioco d’azzardo e che, dalla notte dell’assassinio, fa perdere le sue tracce per poi essere dichiarato deceduto nel 2016.
Molto è stato scritto e ipotizzato in merito, eppure mai nessuno si è soffermato su Sandra Rivett, oltre alla formula della bella e giovane bambinaia uccisa per sbaglio da un lord. Lo ha fatto Jill Dawson in un romanzo ora edito da Carbonio e dal titolo Un inutile delitto (pp. 297, euro 17, traduzione di Matteo Curtoni e Maura Parolini).
«Negli anni Ottanta – racconta la scrittrice inglese raggiunta per qualche domanda – sono arrivata a Londra anch’io come tante altre ragazze per fare la tata, in cerca di avventure e di un futuro più vasto di quello contadino in cui ero cresciuta. Mi sono interrogata molto sulla vulnerabilità di quel lavoro».
Nel suo romanzo, riferisce di una giovane donna dotata di forza interna e di uno sguardo capace di indulgenza e consapevolezza. Chi era Sandra Rivett?
Per i giornali dell’epoca era poco più di «una tata trovata gettata in una busta», come se non avesse una esistenza di alcun valore, come se fosse solo un cadavere o un incidente secondario nella storia della vita di Lord Lucan. Questo è spesso il destino delle vittime. Quando ho cercato notizie di Rivett, ho scoperto tre cose: aveva rinunciato ai suoi due figli dandoli in adozione, teneva a un’amica chiamata Rosemary e aveva trascorso un breve periodo in un ospedale psichiatrico. Ero cosciente che aveva ancora dei familiari viventi, sorelle e figli. Non volevo certo causare loro ulteriore patimento o imbarazzo, quindi ho creato Mandy Rive, lasciando invariati solo quei tre semplici fatti e alterando il resto: il luogo in cui è cresciuta, i genitori, i suoi affari di cuore al fine di creare una personaggia completa, perché il lettore si potesse preoccupare di ciò che le accade e piangere la sua morte.
La voce narrante da lei scelta è Rosemary, le riconosce riflessioni e ambivalenze presenti lungo l’intero libro…
Rosemary mi ha permesso di esplorare temi che mi interessano. Dov’è il confine tra sanità mentale, superstizione, credo religioso, follia e razionalità. Lei guarda il mondo in modo diverso dalla sua amica Mandy, adoperando i «segni» per cercare di capire dove stia il male e come sentirsi al sicuro. Ma sbaglia, proprio come Mandy, e il nodo è: nessuna di loro è responsabile o in grado di «controllare» gli uomini. Gli uomini sono responsabili di se stessi e delle proprie azioni.
Lord Lucan usava violenza contro Veronica Duncan, da cui – al momento del delitto – era separato. La perseguitava, voleva toglierle i figli accusandola di essere una madre incompetente e pazza. È un copione comune che attraversa i secoli e i continenti questo di screditare le donne di cui ci si vuole liberare?
Nel Regno Unito due donne alla settimana vengono uccise da partner, ex compagni o mariti. E i tribunali spesso insistono sul fatto che quelle che hanno paura di consentire ai loro mariti l’accesso ai bambini – a causa di minacce, violenze, possibilità di rapimento – siano pedanti o ostruttive. Statisticamente, gli uomini perpetrano il 95 percento della violenza nelle nostre società e sono i principali responsabili di sparatorie e della maggior parte degli atti di terrorismo. Il punto è che quando si nominano queste come «questioni maschili» o si usano espressioni quali «privilegi maschili» o «mascolinità tossica» si accendono polemiche, come se non ci fosse nemmeno permesso di dire la verità di ciò a cui assistiamo.
Oltre alla deliberata intenzione di un uomo di uccidere una donna e alla vicenda che vede protagonista Sandra Rivett di un «malinteso», qui emerge anche il tema di un corpo di donna ancora più sacrificabile in quanto subalterno. Quanto conta la differenza di classe e come si è depositato il tema nell’immaginario inglese?
La classe regola molti comportamenti in questo romanzo. Quando facevo la tata non ero ancora abbastanza allenata sull’argomento. Al tempo, si presumeva che prendersi cura dei bambini non prevedesse una grande abilità e che tutte le ragazze della classe operaia sarebbero state capaci di farlo «naturalmente», con semplicità perché erano donne. Prendersi cura dei bambini è sempre stato visto come un lavoro di basso livello da un lato; dall’altro, romantico e paradossalmente elevato a una vocazione quasi spirituale. Gli uomini delle classi dirigenti in Inghilterra sono stati tradizionalmente allevati da una tata e separati dalle loro madri in giovane età, per essere inviati nei collegi. Questa separazione e questa mancanza di attaccamento emotivo in corso era ciò a cui lo psicologo dello sviluppo infantile John Bowlby pensava quando ha inventato la teoria dell’attaccamento negli anni Trenta; ironicamente, oggi la si utilizza per discutere la disfunzione di famiglie indigenti o che hanno necessità di intervento da parte degli assistenti sociali. Questo per dire che la differenza di classe permea ogni aspetto della vita britannica, allora come adesso, e non sono sicura che molto sia mutato soprattutto in relazione alla violenza contro le donne.
È un piacere nascondersi, ma è una catastrofe non essere trovati. È un’espressione che mutua da Donald Winnicott, per descrivere la mobilità nell’individuare se stessi, un gioco in cui l’altro appare e scompare davanti ai nostri occhi. Sembra che lei, Jill, nella scrittura faccia un’operazione simile con i suoi personaggi: cercare per poi trovare «ciò» e «chi» si nasconde. Lo ha fatto con Patricia Highsmith nel suo «Il talento del crimine». E ora nel libro «Un inutile delitto».
Ho sempre adorato quella frase e quel concetto. Lo uso anche nel mio romanzo The Great Lover. Per me esprime l’idea che ad alcune persone piace rimanere segrete, private o «nascoste» – o persino indossare maschere e parlare attraverso gli altri come faccio io, come scrittrice – ma solo se si sentono adeguatamente «viste» da almeno un’altra persona. Questo è l’amore. Mi è piaciuto esplorare una tale contraddizione in alcuni personaggi particolarmente timidi, come Patricia Highsmith o Rupert Brooke. A margine, vorrei aggiungere una curiosità: quando aveva dieci anni, Lord Lucan soffriva di mal di testa spaventosi e un comportamento preoccupante; per questa ragione sua madre lo portò proprio da Winnicott.
In «Un inutile delitto», si concentra sugli affetti e le relazioni tra genitori e figli, in particolare il legame materno. Sono temi presenti anche in altri suoi libri?
Ho avuto il mio primo figlio a ventisei anni e ho pubblicato il mio primo libro lo stesso anno (ovvero ho curato un’antologia di racconti di altri, non il mio primo romanzo, che è arrivato poco dopo), quindi mentre mi avvicinavo alla scrittura diventavo madre, due accadimenti intrecciati. La mia esperienza di psicoterapia mi ha permesso di riflettere su ciò che diventiamo, chi siamo e come queste prime esperienze ci segnino. La questione della natura o del nutrimento: quali cose sono innate, quali altre vengono apprese, sono presenti in gran parte del mio lavoro, e anche la questione della violenza: per esempio ciò che rende qualcuno capace di attraversare una soglia e commettere un delitto.
Cosa la affascina della vita degli altri e in che modo pensa che la letteratura possa aiutare nel comprendere meglio e fermare queste esistenze?
Scrivo per mostrare ciò che ho trovato, non necessariamente quello che stavo cercando. Adoro il processo di scoperta e indagine e amo essere sorpresa. Le stesse ragioni per cui leggiamo, ne sono certa: sentirci connessi, sapere che gli altri sentono e soffrono, si innamorano, avvertendosi viventi. Dobbiamo capire anche la nostra stessa mortalità, forse è questa la parte più difficile per tutti.