Jai ha nove anni e frequenta una scuola pubblica in un quartiere degradato di una non meglio specificata metropoli indiana. Il «basti» è una colonia illegale, sovraffollata, con abitazioni di fortuna affittate in nero dal piccolo potentato di turno a famiglie appartenenti allo sterminato sottoproletariato indiano, motore dell’economia urbana. Hindu o musulmani, non fa differenza: si mangia e si dorme in cinque in una stanza, si lavora alla giornata come domestiche per i ricchi o come manovali, sempre per paghe da miseria.
Deepa Anappara, col suo romanzo d’esordio La pattuglia dei bambini (Einaudi Stile Libero, pp. 392, euro 19), sceglie proprio il contesto del «basti» per muovere una vicenda di finzione drammaticamente verosimile. Quando nella colonia di Jai iniziano a sparire bambini e adolescenti, i delicati equilibri della comunità saltano: vicini di casa, colleghi di lavoro, compagni di scuola si dividono in fazioni religiose cementate dal sospetto. Gli hindu accusano i musulmani, i musulmani gli hindu, appaiono capipopolo che arringano la folla, santoni specializzati nel rimestare l’odio inter-comunitario, agenti di polizia corrotti.

PER GLI ADULTI, risolvere il mistero delle sparizioni è l’occasione per regolare conti in sospeso, sciogliere le malelingue, sfogare le frustrazioni di un’esistenza condannata all’invisibilità, all’ombra dei palazzoni dei ricchi, con gli occhi e i bronchi corrosi dall’inquinamento.
Per Jai e i suoi amici, la giudiziosa Pari (hindu) e il dimesso Faiz (musulmano), prevale un senso di giustizia alimentato dal sogno di una vita diversa. Imitando i detective della tv, i tre bambini si adoperano in indagini parallele all’inazione della polizia. Si avventurano nei meandri del «basti», tra banchi del mercato, prostitute, telefoniste, bande di «bambini sperduti» che si arrabattano come possono.
Il romanzo di Anappara, indiana residente a Londra con un passato da cronista a Delhi e Mumbai, ha il pregio di prestarsi a diversi livelli di lettura. C’è la vicenda superficiale, un giallo con piccoli detective alla ricerca della verità. Ma c’è, soprattutto, il racconto vivido, crudo, dettagliato ma mai paternalistico della vita che accomuna milioni di indiani in tutto il Paese. La condizione di perenne indigenza in cui vivono i protagonisti de La pattuglia dei bambini è ancora largamente la norma nell’India urbana del nuovo millennio. E Anappara, che ha descritto per la stampa nazionale le storture del sistema dell’educazione indiano, si destreggia nella resa romanzata di storie, odori e catapecchie fissate nella propria memoria giornalistica. La finzione è costruita a blocchi di fatti e circostanze reali, disseminate di indizi che lasciano intendere, senza svelarlo esplicitamente, a chi o a cosa l’autrice stia facendo riferimento.

IL TITOLO DELLA VERSIONE originale in lingua inglese, Djinn Patrol on the Purple Line, è rivelatore. Troviamo i «djinn», spiriti della tradizione mistica musulmana, e la «purple line», linea viola della metropolitana presente in non molte città indiane. Aggiungendoci la scelta linguistica di Anappara, che fa parlare i suoi personaggi in un misto di inglese e hindi, abbiamo abbastanza elementi per localizzare geograficamente la metropoli del romanzo: è New Delhi, capitale attraversata negli ultimi anni da violente faide inter-comunitarie tra hindu e musulmani, puntualmente strumentalizzate dalla classe politica a fini elettorali.
La pattuglia dei bambini è quindi un giallo ambientato nella povertà dell’India urbana, ma anche un delicato trattato sociopolitico dell’India settentrionale. Due aspetti che l’ottima traduzione di Monica Pareschi, mantenendo intatta la parlata «hinglish» decodificata nel glossario, riesce a non sacrificare nella resa in lingua italiana. Rendendo giustizia alla volontà dell’autrice: far raccontare ai bambini l’orribile normalità del «basti».