Una giovane donna trascina il trolley nella hall di un grattacielo, sale in ascensore: l’idea di viaggio è strettamente connessa con quella di futuro. Per Larissa Sansour (Gerusalemme Est 1973) viaggiatrice tra culture diverse – la madre è russa e il padre palestinese, ha studiato Fine Art a Copenhagen, Londra e New York, attualmente vive a Londra – il futuro riguarda sempre la Palestina. È forse lontano e apparentemente irraggiungibile, come vediamo in Nation Estate esposto negli spazi della fondazione Al-Ma’mal di Gerusalemme e, contemporaneamente, alla galleria Montoro 12 Contemporary Art di Roma (dove è visibile fino al 15 luglio), ma bisogna tenere vivo il dibattito.

Lei, con il suo lavoro interdisciplinare in cui utilizza prevalentemente video e fotografia, lo fa con uno sguardo diretto, fresco e ironico. Piangersi addosso non serve a nulla, piuttosto bisogna evitare i luoghi comuni. In passato l’abbiamo vista indossare i panni dell’astronauta, circondata da tanti «Palestinauti»: una ragazza palestinese che piantava la bandiera verde, nera, rossa e bianca sulla luna. Ora in questo lavoro del 2012 (Nation Estate comprende un cortometraggio di 9 minuti e la serie di sette fotografie di grandi dimensioni che includono un lightbox) eccola salire ancora, di piano in piano, ma con l’ascensore.

Larissa Sansour, Olive Tree (Courtesy the artist eMontoro  12 Contemnporary Art)

Niente più checkpoint, basta l’impronta digitale: ogni piano dell’edificio fantascientifico corrisponde ad una località palestinese. Gerusalemme, Ramallah, Betlemme, Mar Morto, Mediterraneo… Vita reale e fiction si confondono, procedono simultaneamente, così la nota illustrazione degli anni ’30 di Franz Kraus Visit Palestine con l’ulivo in primo piano e la veduta panoramica delle mura di Gerusalemme con la Cupola della Roccia, pur mantenendo l’analoga impostazione grafica diventa «Nation Estate» (traducibile come «nazione bene immobile» o «nazione condominio») con le antiche mura sostituite dalla barriera di cemento che imprigiona i Territori Occupati e, al posto del luogo di culto venerato dalle tre principali religioni monoteiste, ecco svettare la sagoma del grattacielo-Palestina.

In questo luogo surreale si aggirano tre personaggi in carne ed ossa: l’artista, la sorella Leila e il fratello Maxim. Non c’è elemento che sia frutto di casualità, tutto è studiato e realizzato nel dettaglio, dai costumi alla scenografia, alla musica. Anche l’arabesco viene reinterpretato in chiave minimal, come del resto gli intrecci bianco-neri della tradizionale kefiah – simbolo politico palestinese per eccellenza – s’innestano nelle ciotole di ceramica che contengono falafel, hummus, mafful, dawali…

Il cibo, in particolare, è un elemento ricorrente nei lavori di Larissa Sansour, dal più recente Trespass the Salt (2011), realizzato con l’artista libanese Youmna Chlala, a Falafel Road (2010) – nuova collaborazione con l’israeliana Oreet Ashery con cui nel 2009 aveva pubblicato la graphic novel The Novel of Nonel and Vovel – e, andando più indietro nel tempo, Soup Over Bethlehem – Mloukhieh (2006).

In Nation Estate le pietanze sono presentate in una dimensione futuristica – come da copione – ma non cambia la loro valenza simbolica sociale e politica. Riprendendo un concetto già esplorato in Soup Over Bethlehem – Mloukhieh, dove un gruppo di amici mangiano una zuppa di mloukhieh o molokhia (ricetta egiziana esportata in Medio Oriente) su una terrazza che si affaccia su Betlemme, parlando di una quotidianità fatta di limiti, anche il cibo diventa motivo di appropriazione indebita. Ma, diversamente dall’hummus che con falafel e pita con tahina sono considerati «antipasti tipici israeliani», la mloukhieh per via del suo gusto e della sua consistenza particolare («come si può paragonarla agli spinaci?», si chiede un commensale nel video), ha ancora il privilegio di essere un piatto nazionale.

Ma torniamo alla nostra viaggiatrice che, arrivata al quinto piano (Betlemme), esce dall’ascensore, attraversa la piazza della Mangiatoia, supera la Basilica della Natività e si avvicina alla porta del suo appartamento che apre con una chiave elettronica a forma di bandiera palestinese. Mangiare del tabouleh non è meno nutriente, per lei, che guardare il panorama attraverso la grande vetrata. Un ulivo ha messo le radici nel pavimento, l’artista-protagonista lo innaffia; poco dopo si accarezza il pancione (all’epoca aveva in grembo la sua primogenita) guardando il paesaggio. Il futuro è laggiù, dove risplende l’oro della cupola della Roccia. Una vita migliore che, se non altro, vale la pena immaginare.