Poetessa polacca di un certo successo, residente nel Regno Unito dal 2007, Wioletta Grzegorzewska ha deciso di ricostruire la sua infanzia e la sua adolescenza trascorse nella località rurale dal nome, non troppo evocativo e un po’ didascalico, di «Hektary», in Un frutto acerbo (traduzione di Barbara Delfino, Bompiani, pp. 170, € 17,00) centrato sulla minuziosa ricostruzione dei propri ricordi infantili, attraverso un repertorio di simbolismi, per la verità, un po’ scontati.

A fronte della figura materna evanescente, quella del padre, disertore dall’esercito e tassidermista, colpisce il lettore se non altro per una qualche reminiscenza con l’analogo personaggio delle Botteghe color cannella di Bruno Schulz. Ma vera protagonista del romanzo è la porte-parole dell’autrice, la piccola Wiola, tutta impegnata a fare colpo con i suoi virtuosismi descrittivi da enfant prodige. Più derivata dall’attività letteraria dell’autrice che non dalla sua esigenza di restituire il carattere naturalmente poetico di una Weltanschauung infantile, la funzione connotativa del linguaggio lirico («il sole punse le vespe che ritornarono alla loro solita dimensione e volarono via in cerchi viola e rossi») stride nel contrasto con enunciati aridamente denotativi, che si suppongono provenire dalla stessa voce narrante («la centrale elettrica Łagisza annunciò alla radio che ci sarebbe stato un periodo di misure restrittive per il risparmio energetico»).

Poiché il microcosmo lirico-infantile e il macrocosmo dello sfondo storico-sociale interagiscono solo di rado, il risultato è una prospettiva straniata: per esempio, quando Grzegorzewska descrive l’attesa del «papa polacco» per le strade del paesino ricorrendo al chiacchiericcio delle donne intente a cucire bandierine, che verranno immancabilmente vandalizzate da uomini spinti al teppismo più dall’alcol che da convinzioni ideologiche.

In altri casi però l’autrice calca sul pedale di una consapevolezza politica «adulta» che mal si concilia con lo stralunato spaesamento infantile della protagonista: presa dal marasma per essere stata accusata di calunniare l’immagine della capitale dello Stato dei Soviet con un acquerello dove il Cremlino e la cattedrale di San Basilio sono stati dipinti a tinte eccessivamente fosche, la piccola Wiola ha modo di notare che lo stemma della Polonia è un’aquila senza corona, diventando tutto a un tratto cosciente del fatto che, in conseguenza dalla perdita della sovranità politica del suo paese, le viene negata una chance di autodeterminazione artistica. Non poco, per una bambina delle elementari.

Certo, il registro tragico che risuona nelle note di Melma di Wojciech Kuczok per descrivere un deserto umano squassato da ostilità e risentimenti non è una scelta obbligata, ma non più convincente appare quello elegiaco, impiegato dall’autrice, specie se compromesso da scelte stilistiche quali la sintassi approssimativa di certi passaggi, del tutto ignari della consecutio, non si sa bene se per un tentativo di rendere l’eloquio infantile o a causa di una certa infelicità nella resa traduttiva. D’altra parte, Greg (o la sua traduttrice) sembrano permettersi flagranti deviazioni dalla nota elegiaca – «uova delicate come palline da ping pong», «liquore clandestino», «porzioni di patate cotte violacee» – in direzione di scelte pseudodadaiste.