Nella brughiera, i tuoni e i lampi di una giornata tempestosa, dove ora calano spesse le ombre della sera per precipitare in una tenebra di paure. Tra i miasmi e i vapori “attraverso la nebbia e l’aria sporca (through the fog and filthy air)” alitano, si mescolano e si assestano cupe esalazioni e caligini, che si librano componendosi in mobili forme. Tre paiono acquistare permanenza, prendono corpo ed emettono fiati che danno risonanze di voci, si articolano in parole: “Quando noi tre ci incontreremo ancora?

Nel tuono, tra i lampi, o nella pioggia?”. Su questa scena di oscurità incombente e di bufera, con un interrogativo su come e quando si combineranno di nuovo ancora quelle medesime condizioni che sono meteorologiche, ma si configurano in immagini; che sono di sensazione fisica, (il brivido dell’umidità che penetra, il disagio del passo sul terreno impervio), ma che trasformano i confini del corpo nel contorno dei turbamenti dell’animo, William Shakespeare apre The Tragedy of Macbeth.

Quelle tre entità atmosferiche appaiono il ricetto della nequizia, accolgono malvagità e agitano ogni più crudele proposito. Equiparano, confondono e mescolano il turpe e l’onesto, il sordido e il leale, il bello e il brutto: “Fair is foul, and foul is fair”, intonano all’unisono le tre streghe. E, al pari delle voci, esse mescolano velenosi umori e poltiglie per fare “intrugli densi e fitti”. Macbeth ne vede esalare gli aspri fumi e scruta e interroga quelle impalpabili conformazioni di oscurità e di luminescenza: “Parlate, se potete: che cosa siete?”.

Quelle condense si rapprendono in visioni. Ed ecco che riconosce nel loro sussultare (“parlatrici imperfette”), compreso tra paura e determinazione, tra orrore ed esaltazione, il comporsi del suo pensiero nella sua forma compiuta, lui che medita il delitto, dominato dal proposito di uccidere Duncan, il suo re, per prenderne il posto sul trono di Scozia. Quanto svanisce nell’aria gli ha impresso con precisione nella mente la figura anticipata del crimine efferato ch’egli si appresta a compiere: “ciò che sembrava corporeo s’è dissolto nel vento come fiato”.

Chi si induce all’offesa e al male cerca nei terribili strumenti della tenebra i propri veri riscontri (“the instruments of darkness tell us truths”). Constata fra sé Macbeth: “le paure reali (present fears) sono meno tremende/di quelle immaginate. Il mio pensiero d’un assassinio che è ancora soltanto fantastico (yet is but fantastical),/scuote in tal modo la mia integrale condizione d’uomo (my single state of man)/che l’azione (function) è soffocata in congettura (is smothered in surmise)/e nulla è, se non ciò che non è (and nothing is but what is not)”.

Ma quanto a lui si presenta come visione, vista, apparizione (sight) è o non è? La prefigurazione e la congettura: le qualità proprie della loro essenza se e dove prendono campo? Le visioni si attestano di fronte, appaiono e poi spariscono o penetrano dentro, passano attraverso gli occhi per insediarsi come scena unica nello spazio interiore, a dar consistenza a una immagine, tanto intensa ed estesa tanto, da occupare ogni senso vitale che scorra nel corpo vivo ed afferrarlo, e gelarlo?

Così in Macbeth, entro la sua “condizione d’uomo”, ogni determinazione si concentra, è tesa ad esprimersi in quell’unico, effettivo atto da portare a compimento. Avviene allora che l’insieme delle relazioni fattuali, ogni contatto e scambio, e la pregnanza di ogni parola pronunciata, il compimento di un gesto coerente e la percezione del tempo e del luogo, insomma l’intero costrutto della consapevolezza che consente il dominio di sé e coordina il nostro esserci per rapporto a l’altro, è in Macbeth soffocato, compresso, occluso dalla presenza della visione che occupa intero il suo pensiero.

Tassativa e inderogabile, indelebile figura perfetta dell’atto non ancora compiuto, ma integralmente concepito. The Tragedy of Macbeth è scandita dalle visioni e dalle apparizioni. È la vista il tramite che dà accesso e che giustifica lo svolgersi delle sanguinose vicende. Non per caso l’audacia che Macbeth rivendica a sé è, dice, “che oso guardare ciò che atterrirebbe lo stesso diavolo (“dare look on that which might appal the devil”).