Con una sala in meno sia al multiplex Cinestar che alla galleria d’essai Passage Kinos (da 4 a 2 nel giro di pochi anni) in centro, a cui supplisce la decentrata Regina Palast, riprende comunque fisicamente Dok Leipzig. Il festival internazionale di film documentario e di animazione alla sua 64ª edizione e per il secondo anno consecutivo in modalità mista –in presenza e a distanza- apre lunedì 25 per tutta la settimana fino a fine mese.

«Un nuovo inizio» si ripromette il direttore Christoph Terhechte che sottolinea in prefazione al programma ufficiale come i festival siano «luoghi di scoperta, di orientamento che forniscono un’opportunità di liberarsi dalle routine, di lasciare la propria comfort zone (zona sicura), allargare gli orizzonti, partecipare a vivaci dibattiti e riuscire a conoscere persone, film e mondi sconosciuti». L’ampia selezione di oltre 170 opere offrirà senz’altro molte occasioni per andare nell’incerta, seppur navigata, direzione annunciata.

Fuori dalla comfort zone in Germania ci sono sicuramente i conti storicamente sospesi sulla questione ebraica a cui è dedicata la retrospettiva The Jews of the Others: Divided Germany, Distributed Guilt, Dissected Images (Gli ebrei degli altri: la Germania divisa, colpa ripartita, immagini dissezionate), già programmata l’anno scorso e rinviata. Il programma spazia dal film di propaganda nazista Theresienstadt. Ein Dokumentarfilm aus dem jüdischen Siedlungsgebiet (Theresienstadt: Un film documentario dall’area d’insediamento ebraico, 1944) al documentario Das leere Haus (La casa vuota, 2004) sulla resistenza del vicinato al centro comunitario ebraico nella contemporanea prospera Lipsia agli inizi di questo millennio.

Il titolo della rassegna si riferisce alle attribuzioni di ebraicità e all’analisi della Shoah nei film prodotti in Germania o comunque di lingua tedesca, specialmente durante gli anni in cui il paese fu diviso, interrogandosi su come le due repubbliche tedesche hanno affrontato la vecchia colpa comune e su quali premesse ideologiche e sociali si è formata questa visione. Sono domande che emergono, ad esempio, di fronte alla produzione televisiva della DDR Aktion J (Operazione J, 1961) di Walter Heynowski, sul passato nazista di Hans Globke, sottosegretario di stato della Germania occidentale. Le continuità con il passato nazista sono trattate anche nel corto documentario girato nella repubblica federale Es muß ein Stück vom Hitler sein (Quello deve essere un pezzo di Hitler, 1963) di Walter Krüttner sul turismo da tutto il mondo nella Obersalzberg, regione amata da Hitler, e l’attrazione commerciale per il complesso di bunker del Führer.

Pertinente è quindi l’omaggio al regista israeliano Avi Mograbi, che ha pure un collegamento familiare con Lipsia: sua madre infatti da bambina lasciò la città sassone per la Palestina per sfuggire ai nazisti. Con Once I Entered a Garden (Una volta sono entrato in un giardino), Z32 e The First 54 Years – An Abbreviated Manual for Military Occupation (I primi 54 anni – Un manuale abbreviato per l’occupazione militare), Mograbi affronta con approccio critico e ironico la politica d’Israele nel conflitto medio-orientale. Ne parla anche in una master class all’Istituto polacco venerdì mattina alle 11.

Un’altra lezione da maestra del cinema viene tenuta giovedì (stessa sede, stessa ora) dalla montatrice Mary Stephen con il titolo Editing Makes the Film (Il montaggio fa il film). Per l’occasione presenta la propria versione montata del film Odoriko di Yoichiro Okutani, rititolato Nude at Heart (Fondamentalmente nudo). Mary Stephen parla del ruolo dell’editor tra mestiere di servizio e co-autorialità creativa nella giustapposizione fra versione definitiva dell’autore (director’s cut) e quella del montatore (editor’s cut), rispondendo alla domanda di come due visioni artistiche considerevolmente differenti possano scaturire dallo stesso girato documentaristico. Avvertenza per gli appassionati di visioni integrali di cento ore di girato: qui si discute su diverse sensibilità artistiche rispetto alla realtà documentata e non di veridicità del montaggio.

Manipolazione delle immagini esplicitamente manifesta è per sua natura invece quella dell’animazione, parte integrante del festival a partire dalla sua denominazione, ma non come sempre. La tendenza a integrare nelle stesse selezioni i film di animazione con i documentari dal vero pone sì le due tipologie cinematografiche sullo stesso piano, ma ha anche cancellato uno sguardo specifico sul cinema animato. Spariti quindi i programmi mirati e concentrati sui cortometraggi animati internazionali e soprattutto sugli animadoc che proprio qui avevano trovato la loro piattaforma ideale, data la lunga convivenza consolidata. Insomma, i documentari animati ci sono ancora –anche di belli- ma non ci sono più le vetrine dedicate alla sala Astoria seguite dagli incontri ad hoc al Telegraph fra un sorso e una domanda.

Vanno invece individuati nelle diverse sezioni, come nei casi di Flee di Jonas Poher Rasmussen (intervistato su Alias, 7 agosto 2021) o La traversata di Florence Miailhe inseriti nel concorso lungometraggi per il premio del pubblico, oppure nell’analoga sezione per cortometraggi gli animati 98 kg di Izabela Plucinska e Es ist genau genug Zeit (C’è esattamente abbastanza tempo) di Virgil Widrich e Oskar Salomonowitz.

Quest’ultimo della durata di due minuti è stato creato da padre e figlio in differita, data la morte per incidente del dodicenne Oskar. Il genitore ha ripreso in mano il flip book su cui il ragazzo aveva disegnato 206 inquadrature in successione e ne ha proseguito la storia fino alla realizzazione finale.

Nel toccante making of del film (su Youtube https://www.youtube.com/watch?v=ekp6HRXZG9A), la madre Anja Salomonowitz racconta fuori campo in poco più di 5 minuti tutto il processo creativo del corto e la vicenda familiare.

Come per tutti i titoli qui citati, per il lavoro di Widrich e Salomonowitz in particolare, nonché per ogni film in programma, ricordiamoci che si tratta di realtà e di vere vite. Il cinema non è solo spettacolo.