Dietro al titolo del nuovo libro di Iain Chambers e Marta Cariello, La questione mediterranea (Mondadori, pp. 152, euro 12), si può scorgere un geniale rimando teorico adottato nella griglia analitica dei tre capitoli. Il riferimento, ovviamente, è al pensiero di Antonio Gramsci, a La questione meridionale: testo incompiuto del 1926, in cui la geografia è il prodotto di un assetto di potere. Il Mediterraneo, adottando tale sguardo, è «culturalmente e politicamente prodotto: non è semplicemente dato come un ‘fatto’ geografico o storico».
Tra gli obiettivi, non vi è semplicemente il riconoscimento dell’altro o dell’altra, ma una critica radicale alla struttura e ai mezzi di produzione di sapere e al «limite dei nostri apparati di conoscenza».
Nel primo capitolo il Mediterraneo è pensato in termini multilaterali e pluridirezionali. Pensare con il Mediterraneo, come chiariscono gli autori, significa approcciarsi a «una complessità aperta, spezzando la teleologia di una visione singola», e desumere i rapporti di egemonia-subalternità dalla sovrapposizione di tre Mediterranei: quello asiatico, quello africano e quello europeo.

I passati, quello islamico in Europa e quello coloniale in Nord Africa, lasciano tracce capaci di chiamare in causa il presente. Tale approccio sfida la costruzione uniformata del tempo, la linearità e le cronologie storiche, mostra i rapporti di potere e la loro trascrizione nella mappa come dispositivo di controllo dei territori e dei corpi.
La cartina di Al-Idris, realizzata a metà dell’XI secolo, racconta, ad esempio, un Mediterraneo capovolto. «Reintrodurre le tracce di altre geografie e storie – scrivono Chambers e Cariello – permette di minare l’autorità di un unico resoconto del passato che sostiene e perpetua un’egemonia esistente nel presente».
Il Mediterraneo, poi, è inteso come memoria a partire «dai processi che attraverso quel corpo liquido si fanno storie»: storie interne ad archivi diversi da quelli della storiografia; storie fatte di silenzi; storie come memoria dei corpi e dei loro movimenti; storie di deserti come allegorie dell’incontrollabilità del confine; storie di voci femminili, come quella di Maria la ‘pescatrice’ di Procida, di poetesse come al-Khansa e Fadwa Tuqan, delle schiave cantanti.

LA GEOMETRIA piana della mappa è sovvertita dai movimenti dei corpi. Il Mediterraneo, cioè, è considerato nella logica degli intervalli e quindi a partire dalla rottura del continuum tempo-spazio. «Se la voce europea chiaramente non può parlare a nome delle altre rive», l’alternativa proposta è di «imparare a palare nelle vicinanze di un Mediterraneo africano e asiatico», ma anche di problematizzare la storiografia universalizzante. L’esempio proposto è quello de Il grande mare di Abulafia in cui il Mediterraneo è inteso come il risultato dell’azione di alcuni popoli (greci, etruschi, genovesi, veneziani, catalani, olandesi, inglesi e russi). Si dimentica, in toto, il mondo berbero-arabo e quello turco. Tale approccio critico mostra temporalità che non sono singolari o risultato di uno spazio uniforme. «Il tempo è snodato, i fili si ripiegano su sé stessi e si dividono nelle istanze coeve di rappresentazione e repressione» scrivono Chambers e Cariello.

È UNA TEMPORALITÀ densa di spettri e fantasmi che giungono fino al presente. È un luogo fatto di macerie, di tracce e frammenti, dove «non siamo né prigionieri né semplicemente liberi». Spingersi oltre i confini del Mediterraneo europeo, «scavando negli spazi extraeuropei», registra l’esistenza di altre mappe, non contemplate nella geografia egemone. Ad esempio, di un sistema-mondo islamico: la Spagna degli Omayyadi e la musica di Ziryab da Baghdad a Cordova; la corte normanna a Palermo con geografi, poeti e architetti; le sete prodotte a Bisanzio che adornano le spalle dei reali ed ecclesiastici nell’Europa medioevale. Spostare lo sguardo ad est e a sud registra anche la presenza del mondo ottomano: dei corsari barbareschi a Tunisi, Tripoli, Algeri, degli schiavi. C’è poi una terza istanza rappresentata dal colonialismo e dalla trasformazione del Mediterraneo in un lago chiuso, sotto l’azione militare e culturale della Francia, della Gran Bretagna e dell’Italia.
Una quarta traiettoria riguarda il postcoloniale, e, nello specifico, la colonialità di Israele nei confronti dei palestinesi. Si tratta, tra le altre cose, di un Mediterraneo nero che permette di «smantellare i presupposti delle conoscenze e dei linguaggi» che hanno prodotto subalternità. Infine, si parla di un Mediterraneo mondializzato: una rete di estrazione della ricchezza dall’individuo, tra gentrification e precariato diffuso, logiche securitarie e leggi di mercato.