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In molti avranno sentito parlare di Cristina mirabilis, mistica vissuta tra XII e XIII secolo, grazie a una canzone di Nick Cave, Christina The Astonishing, che dava alcuni elementi della sua storia senza ricamarci molto intorno: e di ricami davvero non c’era bisogno, visto che Cristina fu creduta morta e messa in una bara nella città di Liegi, ritornò in vita, si arrampicò sul soffittò e da lì cominciò a gridare di non poter sopportare il puzzo dei peccati del genere umano. Ed è solo l’inizio della vicenda, che la vede compiere azioni estreme ed incredibili, soffrire pene atroci in una sorta di purgatorio terreno, per poi finire i suoi giorni in un monastero.
La sua Vita ci viene raccontata dall’agiografo domenicano Tommaso di Cantimpré, ma ha almeno un altro testimone nel celebre cronista Giacomo di Vitry: narrazioni esemplari in un’epoca in cui si andava diffondendo l’idea del Purgatorio? Specchio di una vita reale in qualche modo fuori dal comune? La storia di Cristina l’Ammirabile resta insondabile al di là del testo che la narra, come in molti altri casi del genere. E tuttavia, si inserisce in un filone di mistica femminile assai caratteristico dell’epoca, come ci mostra la bellissima antologia di testi finemente tradotti e commentati da Alessandra Bartolomei Romagnoli, Antonella Degl’Innocenti, Francesco Santi: Scrittrici mistiche europee. Secoli XII-XIII (Edizioni del Galluzzo, pp. 584, euro, 72).

Alcune delle figure di cui si parla godono di una qualche notorietà, o anche di una grande celebrità: è il caso di Ildegarda di Bingen, badessa, profetessa, naturalista, mistica della Germania renana. Ma sono le figure «minori» a intrigare di più. Talvolta per la poesia degli scritti che ne narrano le vicende; altre volte per il mistero al limite dell’inquietante che le avvolge. Prendiamo il caso di Alpaide di Cudot, vissuta tra 1155 e 1211 in Borgogna. Nata in una famiglia di condizione modesta, vive un’infanzia dura, di lavoro nei campi, e durante l’adolescenza si ammala di lebbra. A parte la madre, gli altri familiari rifiutano di prestarle assistenza e rischia di morire per fame. La sua guarigione è presentata come un miracolo, ma di fatto è costretta a restare paralizzata a letto, quasi incapace di nutrirsi, se non dell’eucarestia. In questo stato che a volta finisce nell’incoscienza, riceve delle visioni nella quali il tema delle pene dei morti, e della necessità del suffragio dei vivi, è ricorrente. Anche questo si può collocare nel quadro dei testi che annunciano la nascita del Purgatorio, ma allo stesso tempo Alpaide è una sorta di tramite fra mondo dei vivi e mondo dei morti, che visita in una inquietante nekya di segno cristiano.

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Ildebranda a teatro
Cronologicamente, siamo in un’epoca nella quale fioriscono forme estreme di religiosità femminile – e non solo femminile; difficile pensare tale libertà esperienziale e di scrittura in momenti successivi. Ma anche rispetto ai secoli precedenti, trascorsi all’insegna di modelli di santità di ben altro genere, queste vite propongono figure di rottura spesso assoluta. È il dato che ha attratto, soprattutto da parte della storiografia angloamericana, letture in chiave attualizzante: il rigetto della vita familiare come forma di autoaffermazione della donna in un’età di cambiamenti profondi; il rifiuto del cibo, così frequente nei testi in questione, come «santa anoressia».

Sono tutte letture legittime e plausibili, purché non annullino la differenza che intercorre fra presente e passato e non ci facciano banalmente appiattire sentimenti, culture, narrazioni altrui (storicamente o geograficamente, nel tempo e nello spazio) sulle nostre. Per questa ragione l’approccio ai testi, se tradotti e curati filologicamente come in questo caso, è sempre il benvenuto e permetterà a molti di farsi un’opinione su un insieme di storie che ci sorprendono e ci affascinano per la loro estraneità e al contempo la loro umanità.

Le vicende del misticismo femminile medievale si inserisce in modo potente nell’ambito degli studi di genere o, se si preferisce, di «storia delle donne», come si diceva in Italia sino a non molto tempo fa. Ed è sempre più evidente come la storia dei secoli medievali al femminile sia straordinariamente varia e interessante. Alla luce della sua diversificazione si può leggere anche il saggio di Paolo Cesaretti, Le quattro mogli dell’imperatore. Storia di Leone VI di Bisanzio e della sua corte (Mondadori, pp. 18, euro 20).

Visto che abbiamo cominciato con una canzone, per la vicenda del basileus Leone, che tra IX e X secolo si sposò quattro volte, si potrebbe ricordare quella celebre di James Brown: It’s A Man’s Man’s Man’s World – un mondo di uomini che tuttavia nulla sarebbe senza le donne che stanno loro accanto; un po’ datato, magari, ma certo vero per la storia di Teofano, Zoe «Zautzina», Eudocia Baiane, Zoe dagli Occhi Neri: questi i nomi delle mogli di Leone VI; la prima morta in giovane età, le altre sposate e divorziate una dopo l’altra a costo di accese lotte a colpi di leggi e canoni con la Chiesa che lo tacciava di ignominia e di sozzura. Dietro le vicende personali, l’affresco di una corte ormai lontana tanto dal modello romano antico, quanto da quello monarchico e imperiale che si andava formando in Occidente.