Il decennio appena concluso è stato segnato dal confronto tra populismo e liberalismo, declinato nelle sue specifiche coppie oppositive: nazionalismo contro europeismo, globalizzazione verso autarchia, sradicamento cosmopolita o radicamento comunitario. La pandemia, lungi dallo scomporre il quadro, ne ha approfondito le logiche. La frattura, che sembra passare oggi tra «negazionisti» ed «epistocratici», non fa altro che innestarsi su linee di faglia ampiamente dissodate dalla politica degli anni Dieci.

STEFANO G. AZZARÀ carica su di sé il peso ambizioso di una possibile sintesi, in questo suo lavoro (Il virus dell’Occidente, Mimesis, pp. 430, euro 30) che è al tempo stesso riflessione filosofica e pamphlet polemico. L’obiettivo critico di questa vasta ricognizione non sta solo nello svelare le carenze di una ideologia liberale evidentemente incapace di governare la società pandemica, quanto di segnalare le linee di continuità esistenti tra questa e le variopinte alternative affermatesi negli anni recenti. Il confronto è così tra l’«universalismo astratto» – ovvero il liberalismo – e il «sovranismo particolarista». Un confronto interno a una stessa logica, espressione di due capitalismi in contrapposizione: l’uno legato ai «vincenti» della globalizzazione, l’altro uscito con le ossa rotte dal confronto economico globale.

La crisi avviata nel 2008, con la conseguente perdita di status di una certa borghesia minore, ne ha esacerbato i contrasti, producendo gli inevitabili epifenomeni politici e culturali: il populismo, da un lato; e una certa reazione alla modernità, dall’altro. Il confronto non riguarda però soltanto liberalismo e populismo. Lo stato d’eccezione – per meglio dire lo stato d’emergenza – causato dalla pandemia ha svelato l’inadeguatezza di molto pensiero critico. Per alcuni (nel testo ricorrono i nomi di Giorgio Agamben e Donatella Di Cesare, ma anche Wu Ming), il virus, se non prodotto, è stato comunque usato dal capitale per fini repressivi, ovvero per approfondire il controllo biopolitico sulle popolazioni riottose alla tutela burocratico-statuale.

L’ALTRO CAPO DELLA CRITICA è di chi rimpiange i valori dello Stato forte inscenando la nostalgia verso un capitalismo mai esistito, ovvero di un capitalismo etico e auto-limitantesi, un capitalismo «della produzione» contrapposto al capitalismo «della circolazione monetaria», finanziario, globalizzato e a-morale. Lo scontro, come afferma chiaramente l’autore, è tra due destre. E se il confronto dialettico è serrato in un’alternativa ingannevole, «nella confusione oggi dilagante non è facile capire dove sia la destra e dove la sinistra, dove inizino i processi di emancipazione e dove quelli di deemancipazione, dove l’universalismo compiuto e dove quello fasullo». A stare in tribuna guardando gli avversari giocare è allora quel pezzo di società lavoratrice, salariata, migrante che continua a perdere terreno politico e diritti sociali, schiacciata tra due borghesie che, avrebbe chiosato Gramsci, persistono nel loro dominio senza per questo esercitare egemonia.