I cinesi residenti in Italia stanno vivendo questi giorni con una doppia preoccupazione: da un lato c’è quella di ottenere informazioni sui propri parenti in Cina, dall’altro quella di difendersi da sguardi torvi, quando non direttamente da aggressioni come capitato a Venezia, da parte di italiani.

Non a caso ieri, nell’annunciare la sospensione delle celebrazioni del capodanno cinese a Roma e a Milano, la portavoce della comunità della capitale ha dovuto precisare che «il virus può colpire tutti, non solo i cinesi. Non c’entra nulla con la razza delle persone», ricordando che in questi casi c’è bisogno di «comprensione e tolleranza». Nel momento di maggior difficoltà, quando il coronavirus ha cominciato a preoccupare davvero, la popolazione cinese, come sempre in questi frangenti, si è stretta in un abbraccio totale, per fare fronte all’emergenza. Come era già capitato con la Sars o con il terremoto del Sichuan del 2008.

Si tratta di impegno e dedizione e sacrificio attivati nonostante ogni cinese sappia di non potersi fidare ciecamente delle informazioni diramate dal proprio governo. Era accaduto così con la Sars, la cui emergenza era stata negata a lungo, o con il Sichuan (o con diversi incidenti ferroviari). La dirigenza, a sua volta, memore del passato e della nuova immagine internazionale che la Cina si è guadagnata faticando non poco per spezzare pregiudizi e luoghi comuni, ha provato a dare risposte diverse, seppure con difficoltà.

Di sicuro la comunità scientifica cinese ha dimostrato fin da subito di voler condividere ogni informazione sul coronavirus: l’intelligenza collettiva è superiore, e i cinesi hanno bene impresso il senso della parola «collettivo». In Italia, invece, si registra un ritorno della sinofobia, per un attimo oscurata dalle apologie nei confronti della lungimiranza, dei ritmi di crescita e del dirigismo cinese; peana per altro che hanno sempre sottovalutato alcune storture del sistema cinese che rappresentano al meglio proprio la complessità della Cina, un paese che è un insieme di tante cose e che andrebbe analizzato come si analizza il resto del mondo, non senza critiche ma nel pieno rispetto della popolazione.

È inaccettabile, però che la sinofobia finisca per essere istigata da un sistema dell’informazione che, specie in casi come questi, dovrebbe garantire fatti, fonti e dati verificabili e non appoggiati su supposizioni. Le voci, i rumors, diventati articoli o servizi o frasi buttate lì in qualche ospitata, nei quali si paventa la possibilità che la Cina «nasconda qualcosa», come ad esempio un esperimento di guerra chimica sfuggita di mano, o sono suffragati da dati e prove o sono solo supposizioni che – al momento – valgono quanto una fantasia. E concorrono a creare un clima di sospetto nei confronti dei cinesi su cui viene caricato tutto il peso dei discorsi classicamente anti cinesi: sono sporchi, mangiano i serpenti, nascondono le cose, sono cattivi.

Se fare informazione ha ancora un senso, allora, mai come in questi casi, bisognerebbe evitare di fomentare il razzismo e offrire un’informazione capace di sviluppare un senso critico e un’opinione fondata su dati certi.