Due secoli separano il presente dalla nascita di Karl Marx. E come ogni bicentenario che si rispetti, sono in preparazione convegni, seminari, pubblicazioni di saggi e monografie. Finora sono annunci di iniziative organizzate da comunità intellettuali non accademiche o di titoli o ristampe da parte di piccole e indipendenti case editrici, ma c’è da augurarsi che abbiano la capacità di porre le basi per una apertura non episodica o rituale di un laboratorio marxiano.

L’autore del Capitale non ha infatti goduto negli ultimi lustri di buona fama presso i grandi gruppi editoriali o presso le istituzioni culturali e c’è da augurarsi una qualche renaissance non effimera. D’altronde, non c’è proprio bisogno di una rilettura dell’opera marxiana privata di quella tensione alla trasformazione sociale interna che l’anima, come già proponeva Jacques Derrida negli Spettri di Marx, o come un teorico ante litteram della globalizzazione, secondo quanto va sostenendo da alcuni anni quell’agit-prop settimanale del liberismo che è l’Economist. Operazioni di normalizzazione culturale che stridono con la diffusione, lo scorso fine settimana, di una dichiarazione del presidente della Banca d’Inghilterra sul rischio di un ritorno politico in grande stile del pensiero marxiano se non verranno varati provvedimenti per attenuare le disuguaglianze sociali e la povertà dovute alla disoccupazione presente e prossima ventura dovute all’automazione dei processi lavorativi. La disoccupazione tecnologica e la crisi sono stati due temi ampiamente analizzati da Marx sin dalla prima stesura di quell’introduzione alla Critica dell’economia politica dove illustrava un ambizioso progetto di ricerca di un ’analisi scientifica del Capitale.

Per gran parte della sua vita, tuttavia, Marx scrisse molto, ma pochi, in rapporto ai materiali lasciati in eredità, sono stati i libri «finiti». La montagna di appunti stilati per chiarirsi le idee, per circostanziare le sue critiche al capitalismo attendono ancora di essere sistematizzati. È toccato a Engels mettere ordine in una parte di quei materiali, magari per pubblicarli in un secondo momento, come è accaduto al secondo e terzo libro del Capitale. Che l’opera marxiana sia da ritenere un’opera aperta ne erano e ne sono convinti molti marxisti. Ne è consapevole anche David Harvey, che apre il nuovo libro pubblicato da Feltrinelli, Marx e la follia del capitale (pp. 240, euro 22), mettendo in rilievo le contraddizioni presenti nell’opera marxiana, considerandole indicazioni di percorsi da intraprendere; segnali cioè di una ricchezza analitica che fanno della critica marxiana dell’economia politica un elemento indispensabile nell’analisi del presente e delle possibilità di trasformare l’esistente.

Coglie il punto Harvey quando scrive che in Marx non c’è una teoria dello stato come regolatore dei processi di valorizzazione, che è assente una teoria marxiana del prelievo fiscale, delle politiche di sostegno alla domanda, delle istituzioni pubbliche come strumento della governance tesa alla riproduzione sociale. Non sottacere i limiti e l’incompletezza dell’opera di Marx è l’unico modo per mettere nuovamente al lavoro la sua critica all’economia politica.
Nella sua rilettura, Harvey si è avvalso delle discussioni avute con studiosi conosciuti all’interno dei suoi interessi disciplinari – la geografia – e dei suoi campi di studio, come è stata l’urbanistica o l’economia mondiale. Le sue riflessioni sono state arricchite dal diritto alla città di Henri Lefebvre, dalla critica al postmoderno di Frederic Jameson, dall’economia mondo di Giovanni Arrighi e Immanuel Wallerstein. Ha fatto inoltre tesoro degli «studi culturali» e delle genealogie di Michel Foucault sul neoliberismo. Ne ha tratto materiale buono da condensare in una serie di lezioni introduttive al libro I e II del Capitale che una volta «postate» in Rete sono diventate uno dei successi del web in termini di materiale scaricato o di vision on line.

Per svelare l’arcano del capitale, Harvey propone di considerarlo come una totalità che ha subito interventi e mutamenti propedeutici a rendere fluida l’interdipendenza tra produzione, distribuzione e consumo. Una fluidità cercata nell’aggirare i limiti e vincoli costituiti dalle differenze dello spazio e del tempo nei quali ognuno dei tre momenti si esplica.

È noto che la produzione non è più concentrata in un solo luogo, ma disseminata nel pianeta. Le distanze tra nuclei produttivi vanno dunque annullate sincronizzando le differenze temporali affinché i frammenti vengano ricomposti in una unità dotata di logica e dove la produzione di plusvalore sia resa possibile. Si può produrre un manufatto tra il Laos, la Germania, il Brasile e la Spagna, ma poi i suoi componenti vanno assemblati e dunque spostati da diversi luoghi che hanno un orologio diversificato. Da qui l’importanza della logistica sia per sincronizzare i nodi della rete produttiva, ma anche per far giungere al mercato o al consumatore finale le merci.

Il sistema di macchine messo in campo sia nella produzione che nella distribuzione e nel consumo non serve quindi solo ad aumentare la produttività individuale e sociale, ma va considerato come una vera e propria tecnologia organizzativa per sincronizzare e potenzialmente annullare tanto le differenze spaziali che temporali. Ovvio che l’organizzazione produttiva si avvalga di droni, intelligenza artificiale, di reti telematiche, di smartphone e dispositivi che rendono possibile stabilire l’esatta posizione di un manufatto dalla sua produzione all’assemblaggio con altri manufatti e dal prodotto finito alla sua destinazione finale. E che abbia bisogno di tanto sudore: quello dei camionisti, dei facchini, dei riders che consegnano le merci.

L’immagine che meglio illustra il funzionamento della produzione di merci è un flusso che deve scorrere senza strozzature o barriere, pena il blocco del processo di valorizzazione. Ma se l’analisi si fermasse qui, scrive Harvey, la critica dell’economia politica rimarrebbe bloccata al I libro del Capitale. Ogni innovazione teorica è quindi benvenuta per completare quel II libro e III libro. Harvey affronta così il tema del capitale fittizio (il denaro dato in prestito per finanziare la produzione ma soprattutto per ricavare profitti dovuti agli interessi maturati), della finanza, ma soprattutto delle sacche inoperose del capitale: ambito, questo, di conflitti sociali che possono mettere in discussione il capitalismo. I servizi sociali, la sanità, la casa, la mobilità, la formazione, la ricerca scientifica, il consumo critico hanno costituito le sacche inoperose del capitale ma sono stati gli ambiti dove si sono manifestati conflitti sociali aspri, continuativi nel tempo e nello spazio, proprio quando la lotta di classe negli atelier della produzione sembrava un ricordo del passato. Allo stesso tempo, anche la riproduzione sociale del capitalismo (cioè il lavoro di cura di donne e uomini), le attività autogestite, le comunità autonome, gli spazi occupati, le comuni agricole, le lotte per la riqualificazione produttiva delle metropoli e dell’ambiente fanno parte di quell’antivalore che stride con le logiche mercantili dominanti nel capitalismo.

Per gestire la follia del capitale occorre dunque, questo il messaggio nella bottiglia di Harvey, politicizzare questi ambiti che attengono alla realizzazione monetaria del valore o alla riproduzione sociale. Senza cadere in una paralizzante visione nichilista dove il capitalismo è visto come un moloch o una totalità che non lascia margini di manovra, i temi affrontati da Harvey possono tuttavia essere letti anche come gli ambiti dove i processi di valorizzazione prevedono una rimessa in discussione da parte capitalista della separazione tra lavoro produttivo e improduttivo e dove la finanza, più che dimensione parassitaria, acquisisce il ruolo di governance del processo di valorizzazione.

È nel ripensare la tensione tra produzione, distribuzione e consumo che il laboratorio marxiano può manifestare la sua capacità innovativa. Fa bene David Harvey a soffermarsi sugli aspetti meno indagati dell’opera di Marx, ma il sentiero di ricerca che indica – tutto rimane invariato, conta solo di colmare le lacune della teoria – è però quello già ampiamente battuto proprio dalla tradizione marxista dalla quale l’autore prospettava una presa di distanza indispensabile per non diventare prigionieri del già noto. Non si tratta di rompere con la tradizione, ma di cercare di far entrare nel laboratorio marxiano l’intelligenza, la creatività, il desiderio di una vita in comune che vengono mantenuti latenti nel capitalismo.

Quel che serve è farli irrompere nel trittico che compone il regime di accumulazione, evitando le trappole di una governance interessate solo a mantenere costante e senza barriere il flusso ordinato di produzione e consumo.