Il 28 marzo di 80 anni fa Virginia Woolf sceglieva di lasciare questo mondo. Eppure, i suoi lettori e lettrici continuano a sentirla viva, e a sentirsi vivi leggendola. E se c’è ancora chi tenta di relegare la scrittrice in un immaginario depressivo e luttuoso, c’è chi invece da anni si occupa con dedizione di raccontare la sua vicenda artistica ed umana, che fu anche piena di luci, e di amore per il mondo, e intelligenza della vita. Fra questi c’è Nadia Fusini, docente, critica letteraria e massima esperta di Virginia Woolf in Italia. Le sue traduzioni hanno fatto epoca: Fusini – solo per citare due esempi – ci ha restituito il bacio tra Clarissa Dalloway e Sally Seton, cassato per motivi di moralità dalle precedenti traduzioni italiane de La Signora Dalloway e mai recuperato, e ci ha aperto gli occhi sul titolo di un altro capolavoro woolfiano, Al Faro, per anni erroneamente tradotto come Gita al faro – equivoco non da poco, visto che la stessa Woolf, nei suoi diari, dichiarò di stare scrivendo un’elegia «To the Lighthouse», dedicata «al» Faro, e non certo il racconto di una gita in barca.

Di Fusini è stato appena ripubblicato Possiedo la mia anima. Il segreto di Virginia Woolf (Feltrinelli, pp. 389, euro 13) libro oramai di culto, dedicato alla vita e alla scrittura dell’autrice inglese. Il libro, uscito per la prima volta nel 2006, era divenuto introvabile, ora, a un mese dalla ripubblicazione, è già in ristampa.

Sono quarant’anni che lavora su Virginia Woolf: l’ha studiata, ne ha scritto in molte forme, l’ha tradotta, e più volte è tornata sulle sue traduzioni. Che cosa le dà, ancora oggi, la frequentazione intima e assidua con questa autrice?
Ogni volta che la leggo mi sembra di scoprire un’altra parte di lei. Ha affrontato la vita da così tanti punti di vista che dopo tutti questi anni ancora mi sorprendo, e mi emoziona accorgermi di quanto ogni cosa che dice mi riguardi, non solo come studiosa, ma come creatura umana. Ricordo che arrivai a occuparmi di lei dopo una lunga analisi personale, molto sofferta, ma anche molto importante. Quando la mia analista lesse il libro che conteneva il mio primo saggio sulla Woolf, mi disse che da quel libro capiva che avevo imparato ad ascoltare. E credo davvero che Virginia mi abbia insegnato a mettermi in ascolto. Da allora, la mia relazione con lei non è mai finita. Anzi, mi è accaduto con lei ciò che succede nelle relazioni vive, quando capisci – e accetti – che è impossibile scoprire tutto intero l’essere che ti interessa, e che ami.

«Possiedo la mia anima», la sua biografia di Virginia Woolf, naturalmente parte dall’infanzia. Com’è stato frequentare da vicino la Virginia bambina e adolescente?
Era una creatura veramente incantevole. Io purtroppo non ho avuto una sorella, ma il modo in cui Virginia si relazionava a sua sorella Vanessa mi ha sempre colpito. Per la ricchezza dello scambio, ma soprattutto per la sincerità di Virginia: fin da giovanissima era capace di uno sguardo autentico su se stessa, e riconosceva con grande onestà la gelosia nei confronti della sorella. È molto bello anche il rapporto col fratello più grande, Thoby, che – beato lui, visto che alle femmine di famiglia fu precluso – studiava a Cambridge, e quando tornava a casa le raccontava degli eroi greci.

Poi, certo, c’era il rapporto difficile con i fratellastri, e la perdita della madre, che morì quando aveva solo tredici anni, e una relazione complessa con il padre, che amava e odiava. Credo che Virginia abbia saputo affrontare con grande intelligenza della vita l’avventura di crescere. E siccome crescere è stato difficile anche per me, mi sono sentita molto solidale con lei.

Un altro tema centrale nella vita di Virginia Woolf è quello della malattia. Ancora oggi questo aspetto è trattato da molti in maniera stereotipata: o banalizzato, o assolutizzato. Perché è così difficile accettare che sofferenza psichica e amore per la vita possano convivere in una sola anima? Soprattutto se si tratta di un’anima grande come quella di Virginia Woolf…
Che abbia sofferto, e sia stata molto malata è un dato di realtà. Com’è altrettanto vero che amava la vita, moltissimo. Aveva un gusto meraviglioso per le cose, anche semplici: le piaceva divertirsi, mascherarsi, ballare, bere. Una volta, per la festa di compleanno della nipote Angelica, a tema Alice nel Paese delle Meraviglie, si travestì da Lepre Marzolina: «Tanto matta lo sono già, – disse – basta aggiungere un paio di orecchie». Era straordinariamente autoironica, e consapevole, e sapeva scherzare sulla malattia. Un’altra cosa che le piaceva moltissimo era viaggiare, soprattutto andare in macchina, ogni volta che saliva in auto era una festa.

Per lei la vita era incontro, continua scoperta. E questo fu fino alla fine. Anche negli ultimi mesi di vita, nel pieno della guerra, con la sensazione di un mondo che stava finendo, il suo diario è pieno di notazioni sul paesaggio, descrizioni di fiori meravigliosi, uccelli, piante. Aveva un sentimento della natura veramente fuori dal comune.
E quanto è commovente, e autentica, quella domanda che fa nell’ultima lettera all’amata Vita, quando le chiede in regalo uno dei suoi pappagallini, e poi le viene il dubbio: «Ma le cocorite muoiono tutte insieme?». Da un lato c’è lo slancio di gioia, l’entusiasmo, la bellezza, dall’altro c’è il pensiero della perdita, del dolore. Lei conosce e vive profondamente entrambi i movimenti: lo slancio e la caduta.

Ha nominato Vita Sackville-West. Parliamo d’amore. Come mai per molti, ancora oggi, è difficile riconoscere che Virginia Woolf non fu solo una donna di genio, ma anche di carne, e che amò anche col corpo, oltre che con la mente?
Per anni è stata data un’immagine sbagliata di lei. Il pubblico di lettori e lettrici è stato abituato a pensare a lei come a una scrittrice snob, iperintellettualistica, fredda. Niente di più falso. In Italia, poi, molta responsabilità l’hanno avuta le prime traduzioni, che per anni hanno coperto la «scabrosa» tematica omosessuale. Oggi, credo che stiamo lavorando bene in questo senso, nel recupero e nella restituzione anche di questo aspetto della sua vita. E, ci tengo a dire, non c’è alcuna ideologia in questo, semmai c’è filologia. Si tratta solo di dismettere certi paraocchi, francamente davvero superati. E di essere disposti a fare della lettura un’esperienza vera.
Leggere il suo epistolario d’amore con Vita è una gioia. E sarebbe assurdo oggi trattare il rapporto con Vita come un’amicizia. La loro relazione è tutto, e passa attraverso tutti gli stadi: ammirazione, amicizia, passione, gelosia, lontananza. È un incontro fondamentale. Da cui peraltro nasce quel meraviglioso romanzo che è Orlando. Che forse vale più di un figlio. No?

Lei è la presidente dell’Italian Virginia Woolf Society, nata nel 2017, e che già vanta centinaia di iscritti e una fitta programmazione culturale. Che cosa significa fare comunità attorno a Virginia Woolf?
Alle mie compagne e compagni di avventura dell’Italian Virginia Woolf Society ripeto spesso questo verso di Shakespeare: «Society is the happiness of life», stare insieme è la gioia, la felicità della vita. Per me fare comunità è questo: essere in una relazione creativa, scambiarsi idee, scontrarsi anche, ma farlo con verità. Questo accresce l’energia umana, questo è eros. È erotico lo scambio quando si sta insieme in modo autentico. Chi incontra davvero il pensiero di Virginia Woolf non può che mettersi in gioco in questo modo.

Si può stare «insieme», e al contempo mantenersi outsider?
Francamente mi trovo bene solo con gli outsider. E mi viene in mente di quando un giorno Virginia incontrò l’amico scrittore E.M. Forster alla London Library, che con grande agitazione le disse: «Sai, qui le donne non possono entrare» – alludendo al fatto che, a quei tempi, le donne non potevano accedere al direttivo della biblioteca. Lei rimase zitta. Ma qualche anno dopo, quando il direttivo aprì alle donne e Forster le chiese se voleva farne parte lei rispose: «No, caro. Non sono la ciliegina sulla torta di nessuno». Ecco, questo è l’outsider. Woolf sa che l’esclusione ha un costo vero, ma vede anche gli enormi svantaggi dell’essere un insider: dal centro non si vede bene come da fuori.
Posso dire che questa è la cosa più importante che mi ha insegnato Virginia Woolf. Lo sguardo da fuori. Non si tratta di costruire un’ideologia minoritaria, ma di custodire la propria intelligenza. Di non farsi ingannare dall’inclusione, quando è «gentilmente» offerta dal potere. Piuttosto, osservarla con sguardo critico, rimanendo coscienti della propria differenza.

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SCHEDA. Domenica 28 marzo un evento dedicato

Domenica alle ore 17, in diretta sui canali fb del Centro delle donne e dell’Italian Virginia Woolf Society, l’incontro «Evviva Virginia» insieme a Elisa Bolchi, Sara De Simone, Nadia Fusini, Samanta Picciaiola, Iolanda Plescia, Liliana Rampello e Sara Sullam. Durante l’evento, letture attoriali di brani tratti dai diari, dalle lettere e dai romanzi con la cura di cinque registe/i teatrali: Manuela Cherubini, Alessandro Fabrizi, Fiorenza Menni, Andrea Mochi Sismondi, Giorgina Pi. L’evento è promosso da Associazione Orlando/Centro delle donne di Bologna e Italian Virginia Woolf Society, in collaborazione con Angelo Mai, Ateliersi, Falling Book, Libreria delle donne di Bologna e Sentieri Sterrati, ed è realizzato con il contributo della Fondazione del Monte, nell’ambito di Flush. Maggiori informazioni sulle pagine fb di chi organizza.

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