«Chi ci libererà dai Greci e dai Romani?» si chiedevano ancora nella Francia post-rivoluzionaria i cosiddetti Moderni, riconoscendo così implicitamente che l’annosa querelle con gli Antichi era lungi dall’essere vinta. E se l’influenza delle civiltà classiche sulle arti, il costume e la stessa politica restava forte in tutta Europa, non meno vigorosa era oltre Atlantico, nella nuova nazione nata peraltro anch’essa da una rivoluzione. È noto che quasi tutti i padri fondatori degli Stati Uniti d’America leggevano i classici in lingua originale (era il requisito principale per essere ammessi a Harvard). Thomas Paine – considerato anch’egli un padre fondatore anche se non poté essere tra i firmatari della Costituzione – affermò più volte che «ciò che Atene fu in miniatura, l’America lo sarà in grande»; ma fu soprattutto la storia di Roma repubblicana a fornire i modelli ideologici alla classe dirigente di un paese giovane e dinamico, deciso a volersi affrancare dal suo passato coloniale.
Un libro di Silvia Panichi, Roma antica e la nuova America Come il mito di Lucrezia e l’idea della Repubblica varcarono l’Oceano (Donzelli Editore «Saggi. Arti e Lettere», pp. VI-161, € 25,00) ci aiuta ora a mettere a fuoco molti altri aspetti di questo intrigante rapporto. Antichista di formazione, studiosa della storia della tradizione classica nella cultura moderna, l’autrice ci guida in un percorso che si snoda tra strade diverse e talvolta insospettate. Si prende l’avvio dalla leggenda di Virginia, la matrona romana che, stuprata dal figlio del re Tarquinio il Superbo, si uccise per il disonore, ma prima chiese al marito, al padre e a Bruto, altro suo congiunto, di giurare di vendicarla. Da quel giuramento ebbero origine i moti che portarono alla caduta della monarchia e all’instaurazione della repubblica. Non stupisce perciò che un artista americano come John Trumbull ne abbia fatto il soggetto di un quadro fortunato, oggi conservato a Yale: gli artefici della rivoluzione americana si riconoscevano in quegli antichi romani che si erano sottratti al giogo di una monarchia tirannica. Del resto, Vittorio Alfieri non dedicò forse la sua tragedia Bruto I a George Washington?
La cultura classica – ci spiega Panichi con abbondanza di esempi – costituiva «un alfabeto intellegibile a popoli diversi, geograficamente e antropologicamente distanti». I ceti dirigenti del vecchio e del nuovo mondo si sentivano membri di quella ‘repubblica delle lettere’ di cui Marc Fumaroli ha ripercorso la storia (il suo libro è stato recentemente tradotto da Adelphi). Sempre in questo contesto vanno inquadrati gli edifici ‘all’antica’ progettati da Thomas Jefferson, il presidente architetto, per le sedi istituzionali della giovane repubblica, come pure i molti archi trionfali ‘romani’ eretti a George Washington. Quest’ultimo, che dopo la vittoria aveva deposto le armi per ritirarsi nella sua fattoria di Mount Vernon, fu spesso paragonato a Cincinnato, e in vesti di antico soldato romano, con la spada ai suoi piedi, fu appunto ritratto da Canova. La statua è andata perduta (proprio in questi giorni il modello in gesso conservato nella casa-museo dello scultore a Possagno è al centro di una bella mostra ospitata dalla Frick Collection di New York), ma Panichi ne ricostruisce la storia, densa di implicazioni ideologiche. Come Cincinnato, anche Washington era tornato a fare l’agricoltore; ma si sorvolava sul fatto che mentre il Romano possedeva un campicello di due ettari che, al dire degli storici antichi, coltivava con le sue stesse mani, la proprietà di Washington si estendeva per più di tremila ettari e vi lavoravano oltre 150 schiavi (affrancati poi per testamento). Washington si guardò fino all’ultimo dal cadere in tentazioni ‘cesariane’ (rifiutò fermamente, per esempio, il terzo mandato presidenziale), forse anche per evitare di fare la fine del dittatore romano. Quando John Wilkes Booth assassinò Lincoln, nel 1865, affermò di considerare il presidente un tiranno, e si paragonò a Marco Giunio Bruto, l’uccisore di Giulio Cesare. E ancora, quando il successore di Lincoln, Andrew Johnson, fu sottoposto a ‘impeachment’ e costretto a ritirarsi dalla corsa per un secondo mandato, il più celebre disegnatore satirico dell’epoca, Thomas Nast, ne celebrò soddisfatto la ‘morte politica’ con una vignetta che parodiava la Morte di Cesare di Jean-Léon Gérôme, un quadro dipinto due anni prima (e curiosamente finito non molto tempo dopo proprio negli Stati Uniti).
L’ultima parte del libro affronta il rapporto dell’America con Roma antica attraverso il cinema. Qui le scelte dell’autrice sono più personali e rapsodiche. Vengono ricordate cose poco note, come il fatto che il titolo di Via col vento ha a che fare con Orazio (la frase Gone with the wind è presa da una poesia di Ernest Dowson, un poeta di fine Ottocento, che riadatta a sua volta un’ode del poeta latino) ma molto di più si sarebbe potuto dire, tenuto conto del fatto che, come recita il titolo di un bel libro di qualche anno fa, «tutto quello che sappiamo su Roma, l’abbiamo imparato a Hollywood».
In tempi in cui ci si interroga sull’utilità dello studio del latino e del greco, un libro come questo porta acqua al mulino di coloro che sostengono le ragioni dei classici. Vedere come la presenza di un passato ammirato e rispettato ha agito nella formazione di una grande nazione moderna può consigliare a non disfarsi irresponsabilmente di un patrimonio che si può ancora mettere a frutto.