Una città del gesto, una Polis rivelata attraverso la condivisione di percorsi e pratiche tra coreografi, danzatori, cittadini, una Polis che porta in primo piano la consapevolezza del nostro corpo e di quello degli altri in relazione con i luoghi che abitiamo. Visione che anima dall’interno il 10° Festival Internazionale di Danza Contemporanea della Biennale di Venezia, ideato dal direttore Virgilio Sieni, al suo quarto anno in laguna. Un progetto di cui saranno protagonisti, tra il 17 e il 26 giugno, 25 coreografi, tra cui Maguy Marin, a cui sarà dato il Leone d’Oro, Anne Teresa de Keersmaeker, Trisha Brown, Boris Charmatz, Emanuel Gat, Shobana Jeyasingh, 9 prime mondiali, 9 prime italiane, più di 100 danzatori coinvolti nel progetto di formazione College. Titolo del Festival, Senza il mio corpo lo spazio non esisterebbe, assunto filosofico che rimanda alla Fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty.

Partiamo dal titolo, Sieni, e dall’accento sulla relazione tra il corpo e lo spazio.La danza è sempre stata per me una questione culturale. Un festival è un’opportunità per ridiscutere la maniera di abitare la vita, di abitare il mondo. Il lavoro che faccio da quando ho fondato dieci anni fa a Firenze l’Accademia sull’arte del gesto, e che è proseguito a Venezia, ha lo scopo di rendere consapevoli più persone possibili di abitare un corpo.

Questa consapevolezza è un bene anche per lo sviluppo delle tecniche della danza. Nell’ultimo trentennio la tecnica è stata troppo spesso vista come qualcosa di distante da una ricerca mirata ad abitare meglio il mondo con il proprio corpo. Per questo motivo titolo la Biennale citando Merleau-Ponty, un programma che sento in pieno accordo anche con la Biennale Architettura 2016 curata da Alejandro Aravena, un progetto in cui temi come il sostegno, la condivisione, l’apertura sono messi in relazione con necessità sociali.

Nella Biennale Danza 2016 metti l’accento sull’incontro tra danzatori, coreografi e cittadini. Ne deriva una visione dell’arte della danza non certo solo estetica.

Il danzatore ha un corpo politico. Quando dico che la danza deve abitare anche altri luoghi oltre il teatro, mi riferisco a un sistema di cui fanno parte musei, beni culturali, edifici industriali, una polis da riorganizzare attraverso un corpo politico che si riappropria con libertà degli spazi attraverso le pratiche della danza. Il lavoro sulla trasmissione fatto negli ultimi anni (si ripensi agli adulti, anziani e bambini coinvolti da Sieni ne Il Vangelo secondo Matteo (2014-2015), ndr) sta portando alla creazione di comunità del gesto che, attraverso la pratica della danza, portano attenzione al corpo diventando consapevoli della propria fragilità, imperfezione, debolezza: coscienza che dal corpo si proietta nei grandi temi sociali della condivisione, della convergenza verso un obbiettivo comune, della tolleranza, della violenza.

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I dieci giorni di festival sono segnati da tre grandi donne della coreografia, Maguy Marin, Anne Teresa de Keersmaeker, Trisha Brown.

Maguy Marin, Leone d’Oro di quest’anno, ha esplorato negli anni con un’estetica prossima alle arti sceniche e alle arti visive temi sociali importanti. Nuovamente il suo è un corpo politico in perlustrazione incessante. Al festival rimette in scena lo storico Duo da Eden, un duo epifanico, dai temi ancestrali. Torna Anne Teresa, Leone d’Oro dell’anno scorso, con una prima mondiale, e Trisha Brown, per lei il riconoscimento di un percorso epocale che ci ha travasato dagli anni Sessanta a oggi. Tutte e tre hanno portato avanti nel mondo il senso della ricerca.

Al festival molti tra i coreografi invitati, da Emanuel Gat a Sandy Williams, presentano per la città un lavoro fatto con i danzatori del progetto di formazione College.

I coreografi che invito accettano di stare a Venezia per più di dieci giorni, condividendo anche una pratica con i danzatori del College. Il festival kermesse non esiste più, voglio che il festival lasci qualcosa che si depositi nella città e i temi sono la relazione con la musica, l’architettura, il paesaggio. Nel programma si annidano i prolegomeni per fondare una scuola sull’arte del corpo. Ho invitato anche molti italiani, da Ninarello a Claudia Castellucci, Camilla Monga, Annamaria Ajmone, Marina Giovannini. C’è però ancora molto da fare nel nostro paese. Sono nati i centri nazionali di produzione, non basta. Ci vorrebbero almeno quindici luoghi dove fare un lavoro importante sul territorio. In Francia, per decreto ministeriale, i centri coreografici hanno l’obbligo di fare progetti legati alla cittadinanza. Mi piacerebbe avere un ministro che mette anche da noi qualcosa di simile nel decreto, ma siamo indietro, non è nemmeno riconosciuta la formazione. Con il progetto College della Biennale annunciamo la necessità di inserire la formazione in un programma politico culturale.

Domani si vota in più di un migliaio di comuni, tra cui Roma e Milano, il nuovo sindaco. Proclami e discorsi che incantino, pochi. Sfiducia molta.

Gli atteggiamenti umani partono dalla pratica individuale, da come ognuno di noi conduce la propria vita. Osservare i politici dà il termometro della situazione. Mi sembra che si perda troppo spesso di vista quello che è il senso della cultura, cosa dovrebbe significare proiettare nel futuro con luminosità l’idea di una nazione, di un territorio, un senso di appartenenza che deriva dal passato e che dovrebbe aprire le porte verso il diverso, facendoci comprendere l’importanza del meticciato, che è oggi un fatto culturale. Manca la volontà di predisporre una piattaforma in cui la politica non sia gestire delle proprietà, ma organizzare una città come fosse un corpo umano, aprendosi all’ascolto del bene comune. Incontrare l’altro non per esercitare l’arte della mediazione, ma per costruire un nuovo territorio: questo è un insegnamento che gli artisti possono dare alla politica.