La sfortuna romantica dell’Eneide è oramai un cliché della divulgazione scolastica, soprattutto in ambito storico-letterario, cui viene quasi sempre associata l’altra formula che liquida l’Ottocento come il secolo anti-virgiliano. Naturalmente non si tratta di stilizzazioni campate in aria, tuttavia è sempre un buon esercizio critico provare a ribaltare, mediante approfondimenti mirati, certi stereotipi che finiscono per oscurare ‘posizioni’ tutt’altro che trascurabili dal punto di vista della storia della cultura. Chi per esempio potrebbe negare a un artista del calibro di Turner il diritto di essere preso sul serio come ‘lettore’ e interprete della Empfindung virgiliana?
Rimanendo nel campo della fortuna figurativa, si consideri il ruolo svolto dalle edizioni illustrate dell’Eneide nella Roma trasformata da Napoleone e dalle committenze francesi, dopo l’euforia classicista della stagione antiquaria: l’edizione ‘in folio’ di De Romanis (1819-’21) finanziata dalla duchessa di Devonshire, con le vedute «a’ giorni nostri» dei luoghi e dei paesaggi teatro del poema realizzate da Franz Ludwig Catel e altri; quella più popolare di Fabri (1811), che procurava la nuova traduzione del gesuita parmigiano Clemente Bondi e le tavole di Bartolomeo Pinelli, «er pittor de Trastevere» fissato, e anche un po’ imbalsamato, dai versi del Belli.
Già, Pinelli. Incisore tanto abile nella tecnica quanto estemporaneo, trasferì ai soggetti epici e agli exempla (richiestissimi) dell’antica Roma repubblicana la freschezza del fisionomista implacabile che ritraeva i tipi e i costumi della strada. Probabilmente leggeva le fonti letterarie, poi improvvisava sulla base di un canovaccio colto, neoclassico, ma disegnando con foga. Punto qualificante delle sue sceneggiature virgiliane, cinquanta tavole, ciascuna recante la firma e i corrispondenti versi del poema, è la riattualizzazione del mito: nascosta, potremmo dire, nelle parole del frontespizio «L’Eneide inventata ed incisa all’acquaforte da Bartolomeo Pinelli Romano» (un romano formatosi però a Bologna, tra Felice Giani e Pelagio Palagi). Qualche anno fa Giorgio Bernardi Perini sottolineava l’effetto di «trasfigurazione artistica del reale» ottenuto da Pinelli nell’inventare, appunto (termine chiaramente tecnico), la composizione delle scene virgiliane, così impostate eppure già «intrise di umori romantici per la sua stessa inclinazione a valorizzare la realtà della vita popolare», tra «l’idealizzazione dei protagonisti e il verismo dei comprimari e degli sfondi».
È noto come Pinelli lavorasse (circa quattromila matrici incise nel corso della vita) trasferendo sulla lastra il bozzetto preparato su carta; nessuno onestamente poteva immaginare che dopo oltre cento anni sarebbe riapparso, pressoché completo, il corpus dei disegni originali per l’Eneide, eseguiti a matita, china, acquarello e biacca: proprio quei disegni che molto verisimilmente, attraverso il consueto processo di semplificazione compositiva, l’artista romano avrebbe poi tradotto nelle acqueforti dell’edizione Bondi. La metaforica riemersione è avvenuta nel golfo della Spezia. Rinvenimento singolare e significativo, dovuto alla perspicacia di Andrea Marmori, direttore del Museo Civico Amedeo Lia. Nello studiare il lascito dei disegni del Lia, Marmori – alla cui vocazione professionale non devono essere stati indifferenti la figura e il gusto nouveau dello zio Giancarlo: lo scrittore e critico d’arte corrispondente da Parigi per «L’Espresso» negli anni sessanta-settanta –, Andrea Marmori ha identificato la mano e l’impostazione insieme accademica e ‘affettuosa’ di Pinelli in un album «privo di paternità», custodito insieme a fogli di Luca Cambiaso, Pier Leone Ghezzi, Utrillo e altri maestri. Nemmeno l’ingegner Lia sapeva chi avesse acquistato. All’entusiasmante e insospettato ritrovamento, parole sue, Marmori ha dedicato nelle sale del Lia una piccola, virtuosa mostra: L’Ottocento eroico, in cui per la prima volta vengono presentati al pubblico i disegni ritrovati – ne mancano all’appello sette –, accanto alla nota serie delle acqueforti del 1811. Completano il progetto espositivo, a perimetrare idealmente l’immaginario figurativo di Pinelli, quattro prestiti dal Museo Gazzola di Piacenza presentati da Alessandro Malinverni: due tele di soggetto omerico di Gaspare Landi, entrambe del 1794 (Incontro di Ettore con Andromaca e Astianatte, Ettore rimprovera Paride), e un classico ‘exemplum virtutis’, Cincinnato che lascia l’aratro, dell’altro piacentino Carlo Maria Viganoni, bozzetto più olio (1827-’39).
Il confronto più stringente resta com’è ovvio quello dei disegni con le corrispondenti, note, incisioni a stampa. Si incarica di un primo commento a caldo Elena Simonetti, la quale nel catalogo ragiona soprattutto sui «ripensamenti» dalla carta al rame: dovuti non soltanto alla difficoltà di salvare al dettaglio certi scorci descrittivi presi al vivo (dunque attualizzanti il Lazio virgiliano), come il soffitto a cassettoni del Tempio di Venere e Roma, ma anche alla pressante forza creativa dell’artista, sempre incline a immettere sangue e soffio vitale nell’eroismo iconografico dell’accademia classicista. Comincia a circolare il sentimento che siamo soliti chiamare romantico, virgiliano.