Dura come la roccia, con voce che contiene tutte le note della natura, Violeta Parra rivive nell’interpretazione stregata di Francisca Gavilán in Violeta Parra – Went to Heaven di Andrés Wood scritto con Angel, il figlio dell’artista che le ha dedicato una biografia appena uscita in italiano (Violeta è andata in cielo, Casini editore). Le note oscure delle immagini accompagnano quelle drammatiche e complesse del carattere e dell’esistenza della poeta e cantante, ritagliano la sua personalità unica dallo sfondo di una intera famiglia di artisti e poeti, si rischiarano nel momento del canto: con i fratelli si esibiva da piccola negli spettacoli per rallegrare le feste con le canzoni del folklore, le cumbie, del Cile, un paese, che, dice lei stessa nel film, nessuno sa neanche dov’è.

Lei ne calpesta il suolo polveroso delle Ande quando, gigante della volontà nel suo metro e cinquantuno di altezza, decide di andarsene da sola dal sud dove viveva nella zona di Chillan, su verso il nord del deserto e delle miniere, accompagnata dal figlio Angel, ancora un bambino, per raccogliere dalla viva voce degli ultimi testimoni non quello che veniva considerato «popolare», ma i canti perduti, tramandati di madre in figlia delle contadine. Un percorso che la porterà ad essere sempre più «militante», lavoro politico sulle lotte sociali, sulla misera vita dei minatori. La sua talentuosa famiglia fa qui solo da sfondo, ma ogni piccolo ramo diventerà poi gigantesco e risplenderà in seguito (il fratello Nicanor, poeta, il figlio Angel, la figlia Isabel cantanti anche loro, le nipoti che vediamo cantare gli slogan del referendum vincente in No di Larrain). E ogni personalità che l’ha accompagnata nella diffusione della nuova canzone popolare, come Victor Jara.

Intenso racconto di una vita e di una indomita volontà di indipendenza, Andrés Wood (Historias de fútbol, Machuca) è con Pablo Larrain uno dei pochi registi contemporanei cileni che guarda al recente passato, alle radici della cultura, ai momenti cruciali della storia, tenendo conto che non è facile guardarsi indietro anche a distanza di decenni, dopo una dittatura. Violeta che la dittatura non l’ha conosciuta, rappresenta nel film quasi la figura simbolica del paese come non è mai stata vista, india a metà, nutrita di profondissime radici che vanno ben al di là dell’immagine rampante che il paese ha sempre voluto dare di sé (e in una delle prime scene del film questo è sintetizzato visivamente da Violeta bambina che si nutre di frutti selvatici impiastricciandosi di rosso la bocca e le guance). La personificazione di una madre terra generosa con i figli, dalla voce che trae ispirazione alle sonorità circostanti, dal battito dei tamburi come il battito stesso del cuore e dei rombi di tuono dei terremoti. Ma che può essere anche nemica e lontana, proprio come lei quando decise di restare in Europa per due anni interi lontano dalla famiglia, che si innamorò dell’uomo sbagliato e soffrì tanto per amore da restarne sconfitta. La sua morte sbalordisce per determinazione, quasi covata a lungo nel profondo della sua mente, in contraddizione palese con l’esuberanza della sua creatività.

Non manca nel film nessuno dei momenti cruciali della sua vita, dall’esposizione delle sue opere di tessitura al Louvre nel reparto delle arti decorative (prima cilena ad esporre nel celebre Museo), alla creazione della Carpa de la Reina, la tenda della regina, nei pressi di Santiago che sarebbe dovuta diventare luogo di esibizioni per gli artisti. Proprio come il Cile che, alcuni anni dopo la sua morte avvenuta nel ’67, diventò il centro di attrazione per poeti e artisti arrivati da ogni parte del mondo per vedere con i proprio occhi la prima rivoluzione socialista avvenuta con libere elezioni.