Passano gli anni e c’è chi vorrebbe relegare la contestazione al G8 di Genova del 2001 nella categoria dei luoghi o dei fatti della memoria, come una pagina chiusa che non comunica più col presente.

È UNA TENTAZIONE emersa a più riprese negli ultimi mesi, ad esempio intorno al dibattito sul reato di tortura e in questi stessi giorni di avvicinamento alla ricorrenza del 20 luglio, anniversario dell’uccisione in piazza Alimonda di Carlo Giuliani. Si cita il G8 di Genova e se ne discutono alcune conseguenze, magari ci si indigna e si esprime qualche misurata frase di rimpianto, ma a condizione di dichiarare solennemente chiuso e sigillato quel capitolo della nostra storia, dopo averlo sottratto all’attualità delle vicende politiche che scuotono il mondo odierno.

RISCHIA COSÌ di avverarsi il vero obiettivo della repressione genovese del luglio 2001: criminalizzare il movimento, attraverso la violenza istituzionale, per criminalizzare le sue idee e metterle fuori gioco.

Allora diciamolo chiaramente: Genova G8 resta uno spartiacque politico e culturale perché mai come in quelle giornate, come in quella fase politica, è emerso con tutta la sua forza il nuovo discrimine fra destra e sinistra, fra adattamento all’ideologia neoliberale dominante e prospettive di giustizia sociale e ambientale su scala planetaria.

LE IDEE FORTI dei forum e delle manifestazioni genovesi sono ancora in campo – la libertà di movimento per ogni essere umano, il ripudio del debito iniquo, la democrazia partecipativa, l’apertura alla visione indigena di Madre Terra, il superamento dell’ideologia della crescita – e perché mai dovremmo abbandonare questo patrimonio ideale e politico costruito dal basso e attraverso i continenti?

GENOVA G8 non è un capitolo chiuso della nostra storia e lo si è visto anche in parlamento: all’inizio di luglio è stata approvata una legge sulla tortura, la cui ragione d’essere va ricercata proprio nelle giornate del luglio 2001, delle quali peraltro non si è minimamente parlato.

L’esito legislativo è stato paradossale, con l’approvazione di un testo che non sarebbe applicabile a un nuovo caso Diaz o a un nuovo caso Bolzaneto, come spiegato in una lettera-denuncia firmata da undici magistrati genovesi impegnati negli anni scorsi proprio nei processi Diaz e Bolzaneto.

È triste ma necessario constatare che in questa vicenda le organizzazioni deputate alla tutela dei diritti umani e in generale il mondo delle grandi associazioni e gli stessi sindacati, sono stati scavalcati per rigore, coraggio e tenacia da pochi singoli attivisti e professionisti (avvocati, studiosi, docenti universitari) e da soggetti istituzionali come il commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, i cui puntuali e potenti messaggi sono stati lasciati cadere nell’indifferenza generale. È cioè prevalsa una logica minimalista secondo la quale occorre accontentarsi di quel che passa il convento-parlamento, perché non è tempo di grandi ideali e di grandi progetti e non è quindi il caso di lottare fino in fondo nemmeno quando si parla di diritti fondamentali.

INTANTO IL CAPO DELLA POLIZIA Franco Gabrielli, in un’intervista-monologo utile solo a certificare la fine dell’era De Gennaro, vorrebbe mettere un punto finale alla questione Genova G8, riconoscendo la «catastrofica« gestione dell’ordine pubblico, ma sostenendo al tempo stesso che la polizia del 2017 è sana «come lo era nel 2001».

Il tutto mentre i funzionari condannati nel processo Diaz si apprestano a rientrare in servizio alla scadenza dei 5 anni di interdizione giudiziaria dai pubblici uffici, grazie alla scelta compiuta a suo tempo e sempre confermata di non avviare provvedimenti disciplinari e di non procedere alle rimozioni richieste dalla Corte europea per i diritti umani.

IL PREFETTO GABRIELLI a questo punto potrebbe e dovrebbe far seguire gesti concreti alle sue valutazioni, ad esempio chiedendo davvero scusa (Manganelli non lo fece, si limitò a dire «è arrivato il tempo delle scuse») e riconoscendo che le violenze di piazza e le torture di Genova G8 furono parte di una precisa strategia di gestione delle manifestazioni e non l’esito casuale di errori nella gestione della piazza o addirittura – come ha detto – della fiducia malriposta nei portavoce del movimento.

Genova G8 non è un fiume inaridito della nostra storia, né un motivo di rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato; Genova G8 è tuttora un cantiere aperto sia per il delicatissimo snodo dei rapporti fra i cittadini – i loro corpi – e il potere, sia per l’enorme questione politica introdotta nella vita pubblica dal movimento che prese corpo fra Seattle, Porto Alegre e Genova.

LO SPIRITO DI GENOVA non è affatto una reliquia della politica italiana: è semmai un enorme patrimonio ideale e culturale al quale fare riferimento nelle lotte presenti e future, coscienti che lo slogan coniato a Porto Alegre nel 2001 – «Un altro mondo è possibile» – non ha smesso di ispirare milioni e milioni di persone attraverso il pianeta.